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Racconti Europei - Il Golden Goal di Bierhoff a Euro 1996: il trionfo della Germania a Wembley

Germania, storicamente terra di attaccanti, di ‘nove’ che oggi forse definiremmo ‘vecchio stampo’. Tendenza invertita negli ultimi vent’anni, con Miro Klose ultimo di una specie ora in via d’estinzione. Negli anni ’90, come nei tre decenni precedenti, la Mannschaft aveva due capisaldi: il libero al centro della difesa a tre e quanti più attaccanti possibili in campo. Normalmente, due. Per quanto riguarda il primo, in vista di Euro 1996 il CT Berti Vogts non aveva dubbi: Matthias Sammer, da un anno e mezzo sostituto di Matthäus, fuori dal giro.

Per l’attacco, invece, l’ex spalla di Beckenbauer aveva tre certezze e un dubbio. Le certezze: Jürgen Klinsmann, il capitano. Fredi Bobic, il capocannoniere. Stefan Kuntz, l’esperto. I dubbi: Herrlich? Non al top fisicamente. Labbadia? Fuori dal giro. Zickler? Forse troppo giovane. Ulf Kirsten? Reduce dalla sua peggior stagione della carriera. Riedle? Mai seriamente considerato nel biennio.

Oliver Bierhoff fino al 1995 era rimasto in disparte. Fuori dalla Bundesliga da tempo immemore, si era fatto un nome all’Ascoli in Serie B dopo una parentesi di poche settimane all’Inter, da dimenticare. In Germania ormai era stato quasi dimenticato. Vogts, invece, aveva seguito lo sviluppo dell’ormai ventisettenne. Convocato a sorpresa, con esordio immediato nel mese di febbraio. Se l’aspettavano in pochissimi. Titolare nelle amichevoli primaverili in preparazione a Euro 1996. Convocato nei ventidue con il numero 20 sulla schiena. Poche aspettative. In Inghilterra sarebbe diventato una sorta di eroe nazionale, scrivendo una pagina di storia del Fußball.

Germany Euro 1996 championGetty Images

17 goal in 31 partite il suo bilancio all’Udinese nella stagione 1995/96. I friulani non erano certo la squadra più glamour del campionato a livello internazionale. Eppure sorprendevano. Zaccheroni in panchina, difesa a tre, esterni di pura spinta, tanti cross. Un sistema che per certi versi poteva ricordare quello della Germania, anche se con un’interpretazione differente. Vogt aveva scelto lui. Rispecchiava la sua filosofia. “La stella è la squadra”. Ecco perché aveva escluso Matthäus dal ciclo del post Mondiale del 1994. Curiosamente, all’Europeo avrebbe coinvolto quasi tutta la rosa nelle rotazioni: sei partite, sei formazioni diverse. Anche obbligate.

In Inghilterra comunque le gerarchie sembravano abbastanza chiare, all’inizio. Bobic e capitan Klinsmann coppia titolare, Kuntz come alternativa dalla panchina, Bierhoff da utilizzare in caso di necessità. Gli era stata concessa un’occasione con la Russia nel girone, ma la scena l’hanno rubata Sammer e Klinsmann, gli uomini simbolo. Contro Italia, Croazia e Inghilterra, tre panchine di fila. Anche se nel frattempo qualcosa era cambiato: Fredi Bobic aveva dovuto dare forfait per infortunio. Anche Klinsmann aveva saltato la semifinale con l'Inghilterra, vinta dopo il celebre rigore di Southgate. Vogts però non aveva scelto Bierhoff, bensì due trequartisti dietro all’unica punta Kuntz. Il Nativo di Karlsruhe l’aveva vista dalla panchina.

Per la finale contro la Repubblica Ceca, Klinsi era tornato a disposizione stringendo i denti per affiancare l’ex bomber del Kaiserslautern in quel momento al Besiktas in Turchia, anche lui ben lontano dal 100%, al pari di Elmer. Mancavano gli squalificati Möller e Reuter, più Freund, Kohler, Basler, lo stesso Bobic, tutti infortunati. In panchina c’erano i due portieri Kahn e Reck - vice di Köpke, ma che avevano ricevuto anche le maglie come giocatori di movimento in caso di emergenza - un difensore come Schneider, un mediano jolly come Todt (convocato in extremis solo per la finale, con una deroga concessa dall’UEFA), poi l’esterno Marco Bode e appunto Bierhoff. Forse Oliver aveva dentro di sé un minimo di rassegnazione, anche se sperava di poter dire la sua, dopo un Europeo da zero goal e tre panchine consecutive. Sicuramente, non si aspettava di deciderla.

“Pensavamo che avremmo vinto la partita - ha dichiarato al sito dell’UEFA - eravamo favoriti. Io ero l’attaccante di riserva, non credevo di poter essere decisivo se fossimo andati sopra di uno o due goal. Naturalmente ero contento perché eravamo arrivati in finale ma, come ogni calciatore, avrei voluto giocare qualche minuto in più. Prima della partita però mi sono detto di godermi l'esperienza, l’atmosfera”.

Bierhoff PSGetty/Goal

Wembley, 30 giugno 1996, minuto 69. La Germania era sotto 1-0 dopo il rigore di Berger. Dopo aver battuto 2-0 i cechi nel girone, i tedeschi pensavano di non dover soffrire così tanto in finale. E invece era arrivato addirittura il momento tutto per tutto: dentro Bierhoff, fuori Mehmet Scholl. Un attaccante di peso per un centrocampista offensivo. Cambiava la storia. Rainer Bonhof, vice di Vogts ed ex compagno nel Gladbach, si era chiesto chi dovesse entrare e, sentita la risposta di Vogts, non sembrava il più convinto di tutti. Un attaccante dell’Udinese in finale? Sì, per il CT. I goal decisivi li ha sempre segnati.

Un saltatore in più, difesa ceca in tilt. Minuto 73, punizione Germania. Cross mancino pennellato da Ziege dal lato destro, traiettoria a rientrare perfetta per Bierhoff sul secondo palo. Colpo di testa, la specialità (‘Gravità zero’, il suo soprannome, non è certamente casuale). Goal. Pari. Tutto in gioco. Fino al 90’ e oltre. Stanchezza, ansia. Sì, ai supplementari è tempo di Golden Goal. Un concetto semplicissimo, ma beffardo: ‘chi segna vince, che subisce perde’.

Nel 1996, destino, era il momento della Germania. Di più: il momento di Bierhoff. 95’, lancio lungo di Helmer a cercare la testa di uno dei due attaccanti. Spizzata di Bierhoff, aperta per Klinsmann. Cross alla disperata, controllo in mezzo a due dell’attaccante dell’Udinese. Copertura del pallone in area spalle alla porta alla ricerca del suo piede destro. Chiuso da due uomini. Poi l’urlo di Marco Bode, il suo compagno di squadra, esterno mancino: “Vai a sinistra”. Consiglio accolto. “Ho tirato alla cieca”, ha rivelato Bierhoff. Una deviazione fortuita, il portiere Kouba che non è riuscito a tenerla. La palla che è lentamente rotolata all’angolino. L’esplosione di gioia di Oliver Bierhoff, che si è tolto la maglia correndo sul prato di Wembley. Non lo aveva mai fatto nella sua carriera.

Aveva appena segnato il primo Golden Goal nella storia delle grandi competizioni tra Nazionali. Aveva appena consegnato alla Germania il suo terzo Europeo.

“Ho realizzato il significato di quel goal solo la mattina dopo a colazione”.

Aveva scritto la storia, anche la propria. Tornato a Udine da eroe, ha rilanciato la sua carriera. Soprattutto al Milan. È diventato un pilastro della Mannschaft per il futuro. Oggi ne è Direttore Tecnico, è uno degli uomini più importanti della federazione. Farà parte della spedizione a Euro 2020. Con l’obiettivo di tornare a Wembley, 25 anni dopo il suo Golden Goal.

Il mondo è cambiato. Bierhoff oggi è laureato in economia, lavora come dirigente. Ha iniziato a ricevere critiche, come all’inizio della sua carriera quando tra Amburgo e Gladbach non riesce a imporsi. Anche Wembley è cambiato: ora ha un arco che lo domina. Ciò che non è cambiato, invece, è un vecchio ritornello che Lineker aveva regalato alla storia 6 anni prima: a calcio si gioca in 22, si rincorre un pallone, e alla fine vincono i tedeschi. Anche al Golden Goal. Specialmente con Bierhoff.

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