Racconti Europei - TottiGoal

Racconti Europei - Io, il pallone scucchiaiato da Totti: un lento a due

Se me lo avessero detto prima, io non ci avrei mai creduto. E non perché non creda nei miracoli, la stessa forma di ciò che sono – una sfera, rimbalzo, non ho angoli eppure sto in piedi – lo testimonia. Quel pomeriggio del 2000, scongiurato anche il millennium bug, nemmeno ci volevo entrare in quella porta.

Ci provarono in tutte le maniere, quelli vestiti d’arancione, ma ogni soffio di fiato che usciva dalle loro bocche era di bestemmia, non di gioia. Amsterdam era un muro arancio, uomini e donne progressisti assiepati sugli spalti che nella loro modernità non pensavano possibile che io, rotonda e semplice palla, potessi tirargli scherzi di quel tipo. Due rigori e per due volte il portiere azzurro, un ragazzone alto, riccio, numero 12 e perciò eroe imprevisto (ma si sa: l’uomo della provvidenza non è mai quello che ti aspetti), mi respinge fuori.

Il suono di quando supero la linea e la rete mi accoglie, quello swosh rassicurante, in quello stadio nuovo nuovo nessuno lo avrebbe mai sentito fino al novantesimo, e anche oltre. A me piace molto quando si arriva ai calci di rigore. Forse qualcuno storcerà il naso, penserà che abbia manie di protagonismo, probabile sia vero: dopo tutto, il gioco si chiama calcio e se non calci un pallone, di cosa stiamo parlando? Quel pomeriggio lì conobbi il ragazzo romano con il numero 20 dietro le spalle; troppo giovane per la 10 che ereditò dai più grandi da lì a qualche anno, troppo sfrontato per non osare l’impossibile. Troppo, tutto.

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Francesco amava parlare semplice e giocare complicato, perché nel teorema di chi è nato con il suo dono, ogni giocata, ogni tocco, è il testamento che resterà a chi lo guarda. I tifosi. Capii subito che Francesco lo stava facendo per i tifosi. La sua passeggiata verso il dischetto era decisa, la testa appena bassa gettava un’ombra maligna sugli occhi da cucciolo, giovane sì, ma inesperto no. Quando nasci a Roma e di Roma diventi l’Imperatore, in troppi hanno già provato ad avvelenarti a ogni banchetto, per cui l’antidoto lo porti sempre con te: si chiama leggerezza. Per fare quello che Francesco voleva fare serviva tutta la leggerezza del pianeta, i tendini fermi, i pensieri spenti, solo io e lui in un lento da fare con un occhio di bue addosso, gli altri invitati tutt’intorno a guardare solo noi.

PS TottiGoal

L’arancione all’improvviso si spegne, già impallidito dalla giornata storta. Rimanemmo soli, Francesco e io. Il portiere suo nemico, unico ostacolo prima della gloria, prese ad applaudire verso il muro stinto alle sue spalle, un urlo di battaglia, più di paura che di convinzione. Per un Imperatore quello è il segnale della resa: se sei sicuro di ciò che stai per fare non hai bisogno di comunicarlo al mondo intero. Lo fai e basta. Infatti Francesco partì con i passi a divorare l’erba sulla quale mi aveva appoggiato, con cura. La rincorsa un elastico pronto a far fuoco che accorciava a ogni falcata, promettendo una traiettoria secca, tesa, di quelle che se indovini l’angolo, forse, molto forse, hai qualche possibilità di spingermi via da quella linea.

Ricordo che mi preparai all’impatto, ma non chiusi gli occhi come facevo sempre. Guardai Francesco fino all’ultimo e lui mi fece una carezza. Quel ballo, il lento dei promessi sposi innamorati, mi coccolò fino al decollo, lento, soave, una nuvola. Puff. Goal. Lo stadio arancione non esiste più, i rumori nemmeno. Esistiamo solo noi due. L'Imperatore di Roma viene visto da tutta Europa, spezza il fiato a un continente. La felicità immortale è impossibile solo se chiudi gli occhi. Noi due, quel pomeriggio, li tenemmo spalancati.

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