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Racconti Europei - Kim Vilfort, l’eroe di una favola senza lieto fine

Boban, Suker, Prosinecki, Pancev, Mihajlovic, Jugovic, Savicevic e Jarni. Tutti insieme, e non solo loro. Si presentava così ai nastri di partenza dei Campionati Europei del 1992 la Jugoslavia che, fresca di una brillante cavalcata ad Italia ’90 interrotta soltanto ai quarti di finale dall’Argentina di Maradona, e del trionfo della Stella Rossa in Coppa dei Campioni, si candidava timidamente – ma non troppo – persino al trionfo finale.

Ma, ben presto, il calcio divenne l’ultimo dei pensieri per il popolo jugoslavo. All’interno della Repubblica Federale scoppiarono i focolai dell’indipendenza e l’esercito jugoslavo intervenne duramente. Dapprima in Slovenia, poi in Croazia, Bosnia e Macedonia; la scia delle rivolte aveva ormai investito l’intera Jugoslavia che, pian piano, iniziava a sgretolarsi generando uno scenario di miseria, violenza e tensione che lasciava poco spazio alla voglia di portare in alto i colori di una bandiera dalla quale in molti, ormai, non si sentivano più rappresentati. Il conflitto si estese a macchia d’olio, al punto da rendere necessario l’intervento dell’Onu che, attraverso una risoluzione adottata il 30 maggio del 1992, decretò l’embargo commerciale ma anche la sospensione di tutte le relazioni scientifiche, tecniche, culturali e sportive.

Come conseguenza della risoluzione, tra le altre, Jugoslavia esclusa ‘de facto’ dagli Europei di calcio organizzati in Svezia, appena 11 giorni prima del match inaugurale.

A sostituire la Nazionale di mister Ivica Osim è chiamata la Danimarca, classificatasi seconda nel Gruppo 4 di qualificazione, vinto proprio dalla Jugoslavia. Riuscire ad allestire in quattro e quattr’otto una squadra capace di onorare un Europeo, però, è impresa tutt’altro che semplice. I componenti della Nazionale danese, conclusa la stagione, sono già partiti per le rispettive vacanze ed il c.t. Richard Moller-Nielsen è costretto a richiamarli, uno per uno, per annunciare loro che prenderanno parte alla rassegna continentale. Danimarca come ‘tappabuchi’, insomma, per il sollievo dell’UEFA che scongiura così il rischio di ritrovarsi a dar vita ad un’edizione ‘monca’ di una manifestazione così prestigiosa. “Dovevo cambiare la cucina, ma mi hanno chiamato per giocare in Svezia", furono le prime parole del c.t. una volta raggiunto il paese ospitante, a testimonianza dell’inattesa improvvisata.

La stella della Nazionale, Michael Laudrup, ai ferri corti con il commissario tecnico, decide di declinare la convocazione, a differenza del fratello Brian che - nonostante qualche dissapore - rientra nei ranghi, ingolosito dalla possibilità di prendere parte alla competizione. Ma anche Laudrup jr., come il resto del gruppo, si presenta in Svezia in condizioni tutt’altro che ideali per disputare una manifestazione di primissimo piano. Niente preparazione ad hoc in vista dell’Europeo ed anzi, ‘addio alla dieta’ e ‘stop agli allenamenti’: classici rituali di fine stagione per i calciatori negli anni ’80 e ’90 che avevano contraddistinto le ultime settimane del gruppo danese. Proprio nel bel meglio del relax, vissuto in famiglia e lontano dallo stress, 20 atleti raggiungono in fretta e furia la Svezia, per andare incontro ad un futuro da eroi che, a loro insaputa, li attende.

Tra loro c’è l’eccentrico portiere del Manchester United, Peter Schmeichel, ma anche tanti “giocatori tremendamente normali”, catapultati in un’avventura alla quale avevano smesso di credere appena qualche mese prima. Un gruppo tutt’altro che giovane quello danese, con un’età media vicina ai 27 anni ma accomunato dalla voglia di dare tutto per onorare la più importante occasione che la carriera aveva loro riservato. Un gruppo di diciannove ragazzi con poco da perdere, tanta voglia di dimostrare ed entusiasmo da vendere. Diciannove più uno. Uno che di entusiasmo, al momento di chiudere la valigia per la Svezia, non ne ha nemmeno una briciola.

Quel “più uno” è Kim Vilfort, 29enne centrocampista del Brøndby, protagonista della classica “vita da mediano” cantata da Ligabue. Generoso, grintoso e sempre al servizio dei compagni, anteponendo il bene della squadra alla gloria personale. Insomma, uno di quei giocatori che gli allenatori amano più della “stella” di turno. Moller-Nielsen non vuole saperne di fare a meno di lui e Kim non si tira indietro. La figlioletta Line, di appena otto anni, è malata di leucemia e per i medici la sua tenera vita potrebbe concludersi da un momento all’altro.

Kim Vilfort Denmark 1992Getty

Un pensiero straziante che accompagna Vilfort in Svezia, dove la Danimarca si fa onore e, a dispetto di ogni pronostico, supera il girone eliminatorio riuscendo ad estromettere le ben più quotate Francia ed Inghilterra. Kim Vilfort, però, continua a vivere un mondiale “part time”: approfittando della vicinanza tra i due paesi scandinavi, al termine di ogni partita torna in Danimarca ad assistere la piccola Line per poi ripartire alla volta della Svezia per raggiungere il ritiro della Nazionale.

In semifinale, ad attendere Laudrup e compagni, c’è l’Olanda campione in carica ma, al termine di una partita indimenticabile e grazie alle parate di Peter Schmeichel, i danesi riescono a spuntarla ai calci di rigore. La Danimarca, “tappabuchi” dell’ultim’ora, è in finale dove ad attenderla c’è la temibilissima Germania Campione del Mondo in carica. Il gruppo danese, però, non riesce ad avvertire ansia né paura. Tutti sanno del dramma che affligge Vilfort, decidono di non parlarne al di fuori dello spogliatoio ma si rendono conto che il calcio, in quella situazione, non può che essere considerato semplicemente un gioco.

Per questa ragione, Vilfort rientra regolarmente in patria per poi raggiungere il gruppo proprio alla vigilia della finalissima di Goteborg. La Danimarca, quella sera, gioca anche per Kim e per Line. Nessuno ne parla, ma il gruppo si è cementato attorno a quel numero 18 così forte e così discreto, capace di comportarsi da professionista nonostante un cuore straziato dal dolore. Davanti a ‘mostri sacri’ come Klinsmann, Brehme e Sammer, è il semi-sconosciuto John Jensen, compagno di squadra di Vilfort al Brondby, a trafiggere Bodo Illgner e a portare in vantaggio gli scandinavi.

Di tempo per recuperare i tedeschi ne avrebbero eccome, ma i danesi quella sera hanno qualcosa in più. E al minuto 78, il calcio fa a uno dei suoi interpreti più puri un regalo indimenticabile. Dopo un batti e ribatti nella trequarti tedesca, il pallone termina sui piedi di Vilfort, rimasto in avanti quasi per caso e che con un dribbling più nelle corde di Laudrup che nelle sue, si porta il pallone sul sinistro eludendo la marcatura di due avversari in un sol colpo prima di scagliare un rasoterra di sinistro che bacia il palo prima di rotolare in rete. I compagni quasi non ci credono, lo travolgono, lo abbracciano. Lui sorride.

Kim Vilfort Denmark 1992Getty

La Danimarca è Campione d’Europa, un traguardo impensabile per una squadra che appena 11 giorni prima del ‘via’ del torneo non sapeva nemmeno che ne avrebbe preso parte. Un sogno che si avvera, facendo da contraltare al terribile incubo vissuto proprio in quelle settimane in Jugoslavia.

Un’impresa che Kim Vilfort può correre a raccontare alla piccola Line, bloccata in ospedale in attesa del suo papà-eroe. E che lei, arresasi alla malattia appena qualche settimana più tardi, ricorderà per sempre come la fiaba più bella di tutte.

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