Troy Deeney WatfordGetty

Violenza, terapia e redenzione calcistica: la folle vita di Troy Deeney

Avrà scalato quei gradini centinaia di volte, liberando i pensieri negativi in pasto a uno dei pochi aspetti della vita che riescono a ingurgitare, senza rischio d’indigestione, i problemi quotidiani, in cambio di 90 minuti di pacifica riconciliazione con il mondo. Sperando non finissero mai.

A poco meno di 4 chilometri di sana, ma frenetica passeggiata dall’uscita del St Andrew’s, casa del Birmingham City, e appena alle spalle del centro città i murales ridavano colore alla grigia e vecchia libreria centrale, nonostante uno spiccato “bianco e nero” geometrico, almeno fino alla demolizione avvenuta di recente.

La visionaria immagine di un uccello, un gufo, che con fare impassibile sventolava, fiero, una bandiera gelosamente stretta dal pronunciato becco, opera di una certa Lucy McLauchlan (di cui, in Italia, è presente una traccia a Comacchio, a Ferrara), ha sempre avuto lo strano potere di alimentare le speranze personali violentando, quasi ipnoticamente, la mente incolpevole del povero passante, capitato lì per caso. “Todos es Posible”. Per Troy Deeney, che quella biblioteca l’avrà incrociata senza troppo peso infinite volte, il concetto stesso di “Tutto è possibile” ha spesso assunto caratteristiche persino bizzarre, ma comunque adatto a un contesto sociale che lo ha reso quel che è adesso.

Todos es Posible Library BirminghamGoal

Ritornando al St Andrew’s, a fine agosto, Deeney deve aver provato quel senso d’’inadeguatezza propria dei momenti nostalgici, alla fine della festa. Per lui è un momento speciale, s’intende.

“Ce l’abbiamo fatta, papà. Tutto questo è dedicato a te”.

Riportando indietro le lancette, il primo pensiero dell’inglese nato a Solihull, nelle West Midlands, a sud di Birmingham, si è diretto, veloce, alle tante volte che il vecchio Burkey lo ha portato con sé a seguire i Blues, tra gli “Zulu” (Warriors), gli hooligan di “Brum”, la “Second City”, la città più popolosa del Regno Unito dopo Londra. Chiaramente e apertamente opposti agli “Hardcore”, i tifosi dell’Aston Villa, che per uno strano scherzo del destino sarà la squadra giovanile di Deeney. Pensate solo allo smacco subito dal padre al pub, dagli amici che al suono di “Warrior Groove” dei DSM, e al coro “Zulu, Zulu, Zulu” portavano avanti l’orgoglio Blues in maniera non del tutto pacifica.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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A dir la verità ci vuole ben altro che un semplice racconto romantico a definire il rapporto tra il giovane Troy e Paul Anthony Burke (come amava essere chiamato da tutti, con il nome completo, in segno di rispetto), che del primo è e sarà soprattutto, anche dopo la morte, il padre adottivo. Quello biologico, nulla più che un “donatore”, lo ha abbandonato poco dopo la nascita, fortificando l’animo della povera Emma, sua madre, e segnando quella di Deeney.

In un certo senso, “Redemption”, nella facile traduzione di “Redenzione”, titolo del libro autobiografico che in copertina mette in mostra la serietà del nuovo giocatore del Birmingham, scavato dalla sofferenza nascosta dalle apparenti espressioni sorridenti a cui ci ha abituato nel corso della sua carriera, è anche il motivo ricorrente di una storia di comune e triste, ordinaria quanto fragile, follia.

“Suonerà male, perché è come se la sia ingigantendo, ma è normale”, racconta ripensando pagine di un racconto difficile da leggere senza coinvolgimenti emotivi. “Quando è finita la partita mi stava aspettando su una Mercedes blu. Sapevo che non fosse sua: non aveva un’auto. Non aveva neanche la patente: non ha mai passato l’esame per averla. Quindi ho presunto l’avesse rubata”, scrive.

È un giorno come un altro, per Troy Deeney: uno di quelli caratterizzati dalla violenza a cui si era frettolosamente abituato, negli anni. Colpa di Paul Anthony Burke e della sua mania di grandezza: del suo egocentrismo ed egoismo. Della sua indole criminale e dei pomeriggi trascorsi a vedere la povera Emma subire vergognosamente le percosse di un energumeno che lui chiama “papà”, ma che non ha mai perso tempo a distruggere la poca armonia familiare di casa Deeney, tanto da tenerli col fiato sospeso al suono martellante della frase “Ucciderò vostra madre, quindi ucciderò te, te e poi te”, come racconta in uno dei passaggi più difficili del suo libro.

Durante l’ora in auto da Northampton a Birmingham, Deeney sente dei rumori provenire dal bagagliaio della Mercedes blu: “Hai sentito, papà?”. Burke, abituato a far “entra ed esci” di prigione, gli rivolge un sereno e inconcepibile “Non preoccuparti, lo libererò tra un po’”. Si ferma a fare il pieno in una stazione di rifornimento, quindi alza il volume della musica per soffocare il sottofondo fastidioso: nel retro c’era un uomo, come spiega il libro. Uno spacciatore che doveva dei soldi a un amico: “L’ho nutrito e sta bene: scommetto che dopo paga”.

“Gli ho detto “Papà, non voglio neanche saperlo”. L’unica cosa che volevo sapere è “Mi metterò nei guai?”, ma lui rispose “No no, è la macchina del mio amico”. Ora che ci penso dico “Quanto era pazza la vita che facevo?”, spiega Deeney in un’intervista al The Guardian.

Troy Deeney BirminghamGetty

“Lo chiamo l’effetto Deeney”: ora, questa frase può avere un duplice significato. Il primo, sportivo, ci riporta al 2013 e a una delle partite più celebri disputate dall’attaccante inglese con la maglia del Watford, lasciata in estate dopo 11 anni (e da capitano): all’ultimo minuto della semifinale Playoff per la promozione in Premier League, a Vicarage Road, c’è un calcio di rigore in favore del Leicester di Nigel Pearson, che all’andata si era imposto per 1-0. Se non avete mai visto la scena (ma ne dubitiamo): dal dischetto va Knockaert che si fa respingere il tiro da Almunia, che miracolosamente salva sulla linea anche il tap-in del possibile 2-2 degli ospiti. Che, in pieno recupero, vuol dire certezza della qualificazione in finale.

Con il risultato di 2-1, anche con il rigore fallito, comunque, il Leicester avrebbe affrontato il Crystal Palace a Wembley: parte un contropiede, quindi un cross sul secondo palo, la torre di Hogg. E un miracolo: un vero e proprio miracolo. “L’effetto Deeney”: al centro dell’area c’è il numero 9 del Watford che batte Schmeichel gettandosi tra la folla che entrerà addirittura in campo (era l’ultima azione della partita). Gianfranco Zola, allenatore degli Hornets, perde più di un battito e persino l’equilibrio nella folle corsa verso l’eroe del giorno.

L’altro significato dell’ “effetto Deeney” si riferisce a quanto accaduto un anno prima, al funerale di Paul Anthony Burke, morto nel 2012 per un cancro esofageo. “Il mio padre biologico è amico del fratello minore di mio padre. Sono arrivato tardi al funerale: entro e lui è lì. Il mio papà biologico, che non vedo da anni, era quello che curava i cori. Era l’ultima persona che volevo vedere, ma per mia madre rimasi in silenzio”, racconta. Il lunedì successivo, in quel mese di giugno, Deeney iniziò a scontare una condanna per rissa. Da lì la vita di Troy, non più giovane e presto, a sua insaputa, colonna portante del Watford in Premier League, cambiò radicalmente.

“In famiglia non ci parliamo: scrivere questo libro era uno dei motivi per alimentare una discussione in famiglia. Ho sostenuto 12 anni di sedute da uno psicologo. Dopo aver dato il libro a mio fratello, lui mi ha detto “Non ho mai saputo nulla di tutto questo”, spiega nell’intervista. Non piange mai, sorride. Gonfia, letteralmente, le guance del suo tondo viso, persino ricordando il terribile Burke: è ritornato lì, dove ha vissuto alcuni dei momenti più importanti della sua vita, legati alle memorie di un padre adottivo violento, ma essenziale.

Il murales “Todos es posible” è stato buttato giù insieme alla vecchia biblioteca di Birmingham a fine 2015: la sensazione tangibile è che per buttar giù Deeney, ben altro che un semplice giocatore, ci voglia ben altro. E lo ha sempre dimostrato

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