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Roma-Liverpool 1984: la finale dei rimpianti per i giallorossi

Esistono molte partite decisive, molte finali dallo svolgimento e dall’esito dimenticabili, quasi banali. Ce ne sono altre, però, la cui narrazione resta pulsante perché catalizzatrice dei sentimenti umani, di ciò che può accadere ad un uomo in una vita intera. Roma-Liverpool, ultimo atto della Coppa dei Campioni edizione 1983/84, emerge come il prototipo di match disegnato dalla mente di un tragediografo aristotelico: unità di luogo, tempo e spazio in una Città Eterna che si fece teatro di un popolo intero. Non si può avere una panoramica completa di quella serata senza il contributo incrociato di un attore e di uno spettatore, tenendo al contempo un occhio sull’arena e l’altro sul tramestio degli spalti.

Roma-Liverpool iniziò ben prima delle 20:15 di mercoledì 30 maggio 1984. “Per tutta la settimana precedente alla gara i tifosi e l’ambiente erano in continua fibrillazione” spiega Franco Tancredi, portiere amatissimo nei suoi tredici anni all’ombra del Colosseo e protagonista della Roma del secondo Scudetto, allora pronta a giocarsi il massimo alloro europeo. Il grande timoniere era Nils Liedholm, “un fenomeno che, insieme al presidente Dino Viola, aveva costruito una squadra capace di imporsi con la programmazione”. La Roma a Roma nella nottata più importante della sua storia, emozioni potenti anche per chi in campo non scese. Ce lo conferma Fabio Botti, cinquantasettenne tifoso della ‘Magica’ trapiantato da vent’anni a Livorno, che, favorito da una buona pinta di birra spillata nel suo pub ‘Bad Elf’, racconta come alla vigilia si respirasse “un clima misto di tensione e di festa, unico per me che a Roma sono nato e cresciuto”, un’atmosfera resa ancora più densa “dalla convinzione di molti di avere già vinto. Io, però, da appassionato di calcio britannico sapevo bene che non sarebbe stato facile, soprattutto quando davanti ti trovi giocatori del calibro di Souness, Dalglish e Rush”.

L’attesa fu vissuta in maniera opposta tanto dalle due squadre quanto dalle tifoserie. Mentre la Fontana di Trevi subiva l’intrusione di qualche hooligan piuttosto spensierato, Fabio si recava all’Olimpico “ore e ore prima” per un evento che “fino a quel momento era soltanto un sogno” e a cui la maggior parte dei tifosi giallorossi non poté assistere: “Nessuno dei miei amici riuscì a trovare i biglietti e andai da solo. Fu brutto, sì, ma che fai, non ci vai?”.

Fuori dallo stadio, intanto, si raccoglievano migliaia di persone al Circo Massimo per il concerto in due atti di Antonello Venditti, cuore romanista, prima e dopo il sacro spettacolo della finale. Contemporaneamente, nella testa dei giocatori si affollavano le immagini delle ultime settimane, in particolare quelle di una doppia semifinale al cardiopalma contro il Dundee, con un romanzesco tre a zero in casa, ottenuto dopo la sconfitta maturata in terra scozzese. “I giocatori del Liverpool arrivarono al campo con le mogli, cantando, mentre noi eravamo nello spogliatoio bianchi come lenzuoli - confessa Tancredi - una reazione dovuta a quell’inesperienza che ci distingueva dai nostri avversari”, reduci dalla vittoria di cinque Premier League e tre Coppe dei Campioni in sette anni. Da par loro, i giallorossi potevano contare su due campioni del mondo quali Conti e Graziani, sull’estro dei brasiliani Cerezo e Falcão, sui goal di Pruzzo e sul carisma dell’indimenticato Di Bartolomei, “un vero capitano, che tutti ascoltavano in silenzio” dice sorridendo il portiere dei capitolini.

In uno stadio ebbro di trepidazione e annegato nel ribollire di decine di fumogeni la gara ebbe inizio. Il Liverpool si presentò giocando secondo i paradigmi dell’energico e rude football inglese, tuttavia senza rinunciare ad una certa brillantezza, con la Roma a proporre “un calcio moderno e coraggioso, con i terzini che andavano come treni, ma anche attento in fase di copertura grazie a diagonali e marcature preventive. Eravamo un pozzo di innovazioni”, specifica Tancredi.

La partita, che vedeva una sostanziale equivalenza delle forze in gioco, fu sbloccata al 16’ da un episodio particolarmente discusso. L’estremo difensore romanista, dopo aver bloccato un cross di Johnston dalla destra, fu caricato da Whelan perdendo la palla, ma il fischietto svedese Fredriksson non segnalò alcuna infrazione. La sfera, maldestramente rinviata da Bonetti sul capo dello stesso portiere, vagò senza padrone davanti alla porta sguarnita per poi essere insaccata con rapacità da Neal. Oltre al danno, una beffa bruciante e rincarata da un episodio narrato da Tancredi: “Quando nella stagione successiva Eriksson, sostituto di Liedholm, giunse a Roma, portò con sé diversi arbitri e guardalinee svedesi per una visita di cortesia alla Federcalcio. Chiesi un colloquio. Mi fu spiegato che Fredriksson non aveva fischiato in quanto la palla, dopo il fallo, era arrivata tra i piedi di Bonetti. Per regolamento, però, il vantaggio non esiste in caso di carica al portiere!”.

L’Olimpico raggelò e poco più tardi ammutolì definitivamente sul 2 a 0 per il Liverpool, ma Rush si vide annullare la rete per fuorigioco. Gli spalti uscirono progressivamente dal torpore, così come la Roma, che, pur ostacolata nel suo gioco verticale dal diaframmatico centrocampo avversario, si rifece avanti. Gli sforzi giallorossi vennero premiati al 43’, quando Pruzzo si avventò su un pallone spento giocato in area da Conti, girandolo sul secondo palo con una splendida torsione e firmando così la rete del pareggio.

Il secondo tempo, tuttavia, si rivelò da subito insidioso per i campioni d’Italia. Al 63’, infatti, le sostituzioni erano già esaurite, con l’autore del goal uscito per una colica e Cerezo richiamato a causa dei continui crampi; era lo scherzo crudele di “un destino che sembrava segnato”, in particolare alla luce del fatto che “entrambi erano rigoristi designati”, spiega Tancredi. L’uscita di Pruzzo tolse efficacia in avanti, quella del carioca rese meno fluida la manovra degli uomini di Liedholm. La gara, sebbene affaticata, rimase vivace e, per la prima volta nella storia della competizione, si protrasse fino ai calci di rigore.

È da qui in poi che l’epica si sovrappone alla realtà, portando mille storie da raccontare e mille altre da smentire in un accavallamento di difficile dipanamento. Le cronache dall’abisso romanista si concentrano soprattutto sul “gran rifiuto” di Falcão di calciare dal dischetto, “una delle delusioni più grandi, qualcosa che guastò il legame tra lui e noi tifosi” ricorda con rammarico Fabio. Tuttavia, tiene a puntualizzare Tancredi che “Falcão mi disse di non riuscire più a muovere il ginocchio per il dolore. Pertanto, io non gliene ho mai fatto una colpa, ma qualche altro compagno lo rimproverò”. Liedholm, dunque, dovette fare a meno in totale di tre rigoristi designati, anche se poteva fare affidamento su un altro specialista dagli undici metri. Il portiere capitolino, infatti, aveva fatto sognare Roma con cinque tiri dal dischetto parati in due finali di Coppa Italia consecutive, nel 1980 e nel 1981, entrambe conquistate a scapito del Torino. A sorpresa, però, si prese la scena l’altro estremo difensore, ossia l’eccentrico Grobbelaar, che, mordendo la rete ed inscenando la sua celebre “spaghetti dance”, tentò di destabilizzare i tiratori giallorossi. La discesa fu rapida e brusca. Dopo il primo rigore sbagliato dall’inglese Nicol, l’Olimpico fu elettrizzato “da un entusiasmo che mano a mano si trasformò in paura”, racconta Fabio. Sebbene poco dopo Di Bartolomei insaccasse a botta sicura, infatti, i Reds si rivelarono infallibili. Al contrario, per i capitolini fu fatale giudice la parte alta della traversa, la quale prima condannò Conti e, infine, Graziani: il rigore di Kennedy firmò la sentenza definitiva, consegnando la Coppa al Liverpool.

Sugli spalti nessuno aveva voglia di parlare” sostiene Fabio, descrivendo lo stesso effetto che soffocò lo spogliatoio giallorosso. “Si è spesso detto che dopo la partita ci furono violente diatribe tra i giocatori, addirittura che ci mettemmo le mani addosso, ma non c’è nulla di più falso. Restammo per un’ora con lo sguardo nel vuoto, zitti, seduti sulle panche. Nessuno fiatò” tiene a chiarire Tancredi. Fabio ricorda che dopo la sconfitta “il Lungotevere si riempì di bandiere e di qualche lacrima”, a testimonianza di “un traguardo impensabile raggiunto dall’orgoglio romanista”. Lo stesso sentimento sgorga dalla voce ferma ed emozionata di Tancredi, che si dice “orgoglioso di avere giocato quella partita”.

Giovedì 31 maggio “mezza città non andò a lavoro”, conclude Fabio, ma, nonostante ciò, nonostante il cielo quella notte sia crollato e l’Urbe si sia svelata un po’ meno eterna e più umana, Roma si tiene ancora stretta la sera in cui i suoi dèi caddero, sì, ma restando immortali.

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