Rivaldo gfxGoal

L'ultimo Rivaldo: idolo all'Olympiacos, in campo con il figlio

Banner archivio storieGOAL

L'Estádio Vail Chaves, casa del Mogi Mirim, piccolo club dello Stato di San Paolo che ha cessato (temporaneamente?) le attività ormai alla fine del 2018, è un impianto come tanti altri. Piccolo e modesto quand'era in uso, abbandonato ora che non ci gioca nessuno. Non è il Maracanã e neppure il Morumbi: può contenere fino a 20mila spettatori circa. Eppure, il 15 luglio del 2015, proprio qui si scrive un pezzo di storia. Rivaldo, il fuoriclasse che nel 1999 ha alzato il Pallone d'Oro e nel 2002 la Coppa del Mondo, è in campo con la maglia bianca e rossa e fa coppia in attacco con il figlio Rivaldinho. Non è la prima volta, in realtà. Ma per la prima volta padre e figlio riescono ad andare a segno nella stessa partita, vinta per 3-1 sul Macaé: Rivaldo una volta, Rivaldinho due.

“Sono felice”, dice dopo partita l'ex fuoriclasse del Barcellona. “Credo che siamo entrati nella storia - gli fa eco il figlio - Ho già sentito di padre e figlio in campo nella stessa partita, ma mai a segno insieme. Mio padre mi ha sempre sostenuto, quello che sono diventato oggi lo devo a lui”.

Tre mesi prima, Rivaldo ha compiuto la bellezza di 43 anni. Ed è al termine di quella serata magica, con ogni probabilità, che decide che il proprio ciclo nel calcio si è concluso. In effetti saluterà tutti solo qualche settimana più tardi, con il Mogi ultimo nella Serie B del Brasileirão e condannato a una retrocessione in C che si concretizzerà puntualmente a novembre. Chiudendo in bellezza, almeno dal punto di vista personale, la seconda parte della propria carriera. Quella che non tutti conoscono.

Il secondo Rivaldo, quello che ha abbandonato le luci della ribalta avviandosi verso un lento e inesorabile declino tecnico e fisico, è nato nel Milan galáctico di inizio millennio. Dove l'ex Barcellona ha vinto l'unica Champions League della propria carriera, quella di Manchester contro la Juventus. Ma non da protagonista. Il feeling con Carlo Ancelotti non è mai venuto alla luce e la presenza di Kaká e Rui Costa gli ha chiuso le porte. Pure lui ci ha messo del suo, con prestazioni spesso scadenti e un bottino di presenze e reti insufficienti per un personaggio del suo calibro. E così, nel gennaio del 2004 Rivaldo decide di fare un passo indietro: torna in Brasile, al Cruzeiro, che ha appena conquistato in un colpo solo Brasileirão, Copa do Brasil e Campionato Mineiro sotto la guida di Vanderlei Luxemburgo, ex ct della Seleção.

È proprio Luxa a caldeggiare l'acquisto di Rivaldo. Lo considera la ciliegina sulla torta di una squadra già fortissima. Lo spogliatoio la pensa allo stesso modo, naturalmente. Ma al contempo non è esattamente felice del mega stipendio garantito dal club al nuovo arrivato.

“Il comunismo non esiste nel calcio – si difende il presidente Zezé Perrella Ogni artista ha il proprio valore. E i calciatori più giovani sanno bene quanto potranno migliorare giocando assieme a compagni come lui”.

Rivaldo sbarca a Belo Horizonte accolto da una torcida in festa. Ha firmato per un anno, con una clausola unilaterale valida nel caso dall'Europa giunga una proposta conveniente: “Ma spero di non usarla. La mia intenzione è quella di rimanere qui più di un anno”, dice. Non sarà così. E il primo campanello d'allarme suona già all'esordio: sconfitta per 1-0 in casa contro il modestissimo Valeriodoce, la prima della Raposa nel torneo statale dopo tre anni. Rivaldo gioca anche in Libertadores, fornisce un assist all'esordio contro il Caracas, ma non entra mai nei meccanismi di un Cruzeiro lontano parente della máquina del 2003. È lento, costantemente fuori forma. Segna solo due volte in 11 partite. I tifosi iniziano a prenderlo di mira, fischiandolo costantemente. E a metà anno, dopo l'addio del mentore Luxemburgo, anche lui decide di andarsene.

Sta per firmare con per il Bolton, in Premier League, ma l'operazione non si concretizza. Così il nuovo destino si chiama Atene. Lo chiama l'Olympiacos e Rivaldo accetta. Giocherà di nuovo in Champions League, come ai tempi del Barcellona e del Milan. Nelle settimane dell'isteria collettiva per il trionfo della Nazionale di Otto Rehhagel, il brasiliano spara piuttosto alto: “Nessuno avrebbe mai scommesso sul loro trionfo, quindi perché l'Olympiacos non dovrebbe puntare alla Champions?”. A convincerlo, però, è soprattutto il connazionale Giovanni, altro 10 delizioso, che con lui condivideva lo spogliatoio catalano e che ritroverà ad Atene:

“L'ho chiamato e gli ho detto di andare in Grecia – ha raccontato qualche tempo fa a 'Globoesporte – Gli ho raccontato che qui dopo gli allenamenti si andava tutti in spiaggia a giocare a calcio-tennis. Era un paradiso. Ho detto ai dirigenti di prenderlo e alla fine Rivaldo è rimasto lì per quattro anni. Ho dato una spinta alla trattativa”.

Rivaldo - Olympiakos (2006)Rivaldo - Olympiakos (2006)

In quattro anni, pur senza raggiungere i livelli maestosi di Barcellona, Rivaldo riacquista la fiducia in se stesso. Nella prima stagione ha sulle spalle un inedito numero 5, come Zidane al Real Madrid. Gioca meno di fino, agisce qualche metro più avanti e bada maggiormente al sodo. Diventerà un beniamino, conquistando tre volte il campionato e due la coppa nazionale. Proprio nella finale di Coppa di Grecia 2005 mette a segno uno dei goal più belli della sua carriera. È il 70' e l'Olympiacos sta conducendo per 1-0 sull'Aris di Salonicco: Rivaldo scambia con Nery Castillo nei pressi della bandierina e, da posizione defilatissima, fa partire un delizioso sinistro a giro che va a incastonarsi direttamente sotto l'incrocio opposto. Alla fine la formazione di Bajevic si imporrà per 3-0, alzando il trofeo.

“I poster di Rivaldo tappezzavano le pareti della mia stanza quand'ero piccolo – ha raccontato l'ex compagno Peter Philipakos al portale 'Dream Team' – Ricordo che indossavo anche le sue stesse scarpe, le Mizuno, quelle con la linguetta bianca. Mi ci sono voluti dei mesi per trovarle. A dire il vero ho giocato con e contro molti calciatori che ammiravo da bambino. Quindi non sono il tipo che rimane a bocca aperta. Ma per la prima volta sentivo che tutto era molto strano. La mia mente stava elaborando il fatto che eravamo nella stessa squadra, che potevo vederlo tutti i giorni, che non ero più il ragazzo che appendeva i suoi poster alle pareti”.

Nella Super League greca, a quei tempi una sorta di cimitero degli elefanti, Rivaldo rimane per quattro anni. Tre all'Olympiacos e un altro all'AEK, sempre ad Atene. Nel febbraio del 2007, un anno e mezzo prima della scadenza del suo contratto con i biancorossi, annuncia: “Ho intenzione di chiudere la carriera alla fine della prossima stagione”. Poi, qualcosa si rompe. E la separazione è traumatica: “Il presidente mi considerava vecchio – dirà in seguito – ma io volevo rimanere in Grecia”. E così nell'estate seguente cambia sponda, rifiutando un'offerta dei Los Angeles Galaxy e firmando un biennale con i gialloneri, allenati dalla sua vecchia conoscenza (al Barça) Lorenzo Serra Ferrer.

Al secondo derby, il 30 marzo del 2008, la vendetta di Rivaldo si consuma in tutta la sua crudeltà. L'AEK, che da qualche settimana ha in panchina non più Serra Ferrer ma Nikos Kostenoglou, si impone con un 4-0 che rimane tutt'oggi la sconfitta esterna più pesante rimediata dall'Olympiacos in una stracittadina. Il brasiliano incanta, sforna due assist vincenti e dimostra ancora una volta di non essere finito. E al termine della partita alza il braccio e, in segno di scherno, mostra 4 dita ai suoi ex tifosi.

Nonostante i proclami di Rivaldo, che nel giorno della presentazione diceva di “voler riportare il titolo dopo 13 anni”, l'AEK arriva secondo a un punto dall'Olympiacos campione di Grecia: “Ma loro hanno vinto solo grazie a 3 punti assegnati a tavolino all'inizio della stagione. Una squadra che non vince sul campo non dovrebbe essere incoronata campione”. Chiude con l'AEK dopo un anno e vola in Asia. Lo chiama il Budnyodkor, potenza emergente dell'Uzbekistan, campione in carica e destinato a trionfare per altri tre anni di fila. L'allenatore è Luiz Felipe Scolari, che con Rivaldo ha condiviso la gioia del trionfo nippocoreano del 2002:

“Quando cominciava a gridare e a gesticolare - ha raccontato il mancino al quotidiano online portoghese 'Observador' - vedevi certi compagni uzbeki abbassare la testa timorosi. Io no, ero già più abituato. E poi qualche urlo fa bene ai calciatori”.

Rivaldo milita nel Bunyodkor per due anni, vince altrettanti campionati e nel 2009 si laurea capocannoniere con 20 reti. Non c'era riuscito nemmeno in Spagna, ai tempi dorati del Barcellona; ce la fa a 37 anni. Con un aiutino particolare:

“Mi sono fermato a 20 e il mio compagno d'attacco Soliev ha cominciato a segnare senza sosta – ha raccontato ancora tra le risate  – Da 14 a 16 goal, poi 17, poi 18. A una partita dalla fine ho telefonato al ct dell'Uzbekistan chiedendogli di convocarlo, in modo da non farlo giocare all'ultima giornata. È stata la mia fortuna”.

Fortuna che si esaurisce al San Paolo, nel 2011. Per la terza volta, dopo Corinthians e Palmeiras, Rivaldo indossa la maglia di una grande dello Stato paulista. Segna all'esordio, gioca assieme a Casemiro e Lucas Moura, illude la tifoseria, che a più riprese invoca il suo utilizzo. Ma la stagione del Tricolor è mediocre e gli allenatori si alternano senza sosta: inizia Paulo Cesar Carpegiani, prosegue Adilson Batista, chiude Emerson Leão. E in mezzo c'è spazio, in due occasioni distinte e sempre ad interim, anche per Milton Cruz. Quando Adilson viene esonerato, il presidente Juvenal Juvencio lo accusa al 'Jornal da Tarde' di aver dato troppo spazio a Rivaldo:

“Qualche volta sembrava che volesse ascoltare le richieste dei tifosi. E spesso non era il caso. Contro l'Internacional, per esempio, Rivaldo è rimasto in campo per tutta la partita, ma non era in forma e si è mangiato un goal. Adilson è una brava persona, ma non avrebbe dovuto compiacere la tifoseria, la rosa o i giornalisti. Qui l'unico impegno che si deve assumere è con il club”.

Rivaldo capisce di dover nuovamente cambiare aria e se ne va. Su Twitter annuncia che “questo non è il mio addio al calcio”. E va di nuovo all'estero: al Kabuscorp, in Angola, dove arriva nel gennaio del 2012 dividendosi tra campo e progetti sociali. “Un'esperienza nuova”, la definisce al momento del suo arrivo. Qualche mese prima ha acquistato un terreno nella Capitale Luanda per la costruzione di una chiesa, che sarà inaugurata nell'ottobre dell'anno seguente. L'unica stagione in Africa si chiude con 11 reti in 21 partite, un terzo posto nella classifica dei marcatori e un quarto in campionato. Ironia della sorte il Kabuscorp, che fino a quel momento ha la bacheca rigorosamente vuota, trionferà per la prima volta proprio nella stagione seguente. Senza Rivaldo, che se ne torna in Brasile.

La tappa successiva si chiama São Caetano. Non è più la squadra rivelazione che all'inizio del millennio sognava di conquistare Brasileirão e Libertadores, perdendo tre finali su tre. E non è più il Rivaldo di Barcellona e Seleção. Il viale del tramonto è ormai imboccato. L'ex rossonero gioca col contagocce, è visibilmente in declino, segna un paio di reti, poi se ne va. Dove? Al Mogi Mirim. Club del quale, dal 2010, è anche il presidente. La sua prima decisione, una volta assunta la carica, era stata quella di cambiare il nome dello stadio in "Romildo Vitor Gomes Ferreira", omaggio al padre. Dopo l'addio dell'ex Pallone d'Oro, alla fine del 2015, l'impianto tornerà definitivamente a chiamarsi Vail Chaves.

Intanto, però, c'è spazio per realizzare l'ultimo sogno: giocare in coppia con il figlio. Rivaldo e Rivaldinho scendono in campo insieme per la prima volta il 18 febbraio 2014, contro il XV de Piracicaba: il padre ha 41 anni, il figlio 18. Rivaldinho gioca tutti i 90 minuti, Rivaldo entra in campo a 34 minuti dalla fine. “Sono felice, ringrazio Dio per aver vissuto un momento del genere”, dice il papà dopo la partita. Un anno e mezzo dopo vivrà una gioia ancor più grande nella storica notte contro il Macaé. La perfetta chiusura del cerchio.

Pubblicità