Da allenatore ha scritto la storia della Sampdoria, oltre ad aver allenato giocatori come Pagliuca, Cannavaro, Mihajlovic, Lombardo, Nakata, Mancini, Vialli e persino Totti, che sotto la gestione di Vujadin Boskov scese in campo a 16 anni in un marzo del 1993. Sebbene la sua storia in panchina sia nota ai più, grazie soprattutto alle sue dichiarazioni mai banali e che sono entrate in un gergo popolare calcistico, il Vujadin Boskov calciatore resta avvolto in una sorta di nube che negli anni non è mai stata adeguatamente diradata.
Erano tempi diversi, era un calcio lontano da quello che vediamo in televisione oggi. Vujadin Boskov era nato nel 1931 a Begec, un villaggio vicino a Novi Sad, nella Serbia che ancora non era tale. Era jugoslavo a tutti gli effetti ed era succube di quelle leggi che gli impedivano di varcare i confini della patria, restando ancorato al suo paese, fino a quando non scoprì la Sampdoria. Prima di quel grande trasferimento, che lo portò a varcare il confine, Boskov vede la sua carriera iniziare nel 1946, quando appena quindicenne lascia il suo villaggio e arriva nelle schiere della Vojvodina, la squadra di Novi Sad. Lo fa per esprimere al meglio le proprie qualità, quelle di un centrocampista in grado di organizzare l’azione e coordinare la manovra offensiva, ma anche quella difensiva: era un mediano completo, al quale si poteva chiedere qualsiasi movimento. Diceva di correre come Gullit e di saltare come Santillana per colpirla di testa. Si ispira a Hidegkuti, della grande Ungheria, e Didì, perno del Brasile dell’epoca. Destro di piede, ma impara a usare anche il mancino.
Fugge da una condizione di povertà, quando nel 1946 firma per la Vojvodina: la storia di Boskov potrebbe quasi essere uno stereotipo del calcio moderno, se non fosse che è ambientata quasi un secolo fa. Perde il fratello maggiore, Alexandre, nel 1943: muore a 17 anni di meningite e resta con la sorella, alla quale rubava le calze per appallottolarle e farsi un pallone col quale poter giocare a calcio. L’occasione che gli viene data a Novi Sad è di quelle che gli permettono di iniziare a vivere il calcio come una storia vera, da poter raccontare un domani. Il Vojvodina, però, è una squadra modesta, molto più della Stella Rossa, dell’Hajduk e della Dinamo, che da anni dominano i campionati insieme al Partizan. Nonostante questo Boskov resta a Novi Sad fino al 1960: sono 14 anni, di cui dieci giocati tra i professionisti, totalizzando 185 presenze e 15 reti. Tra i risultati più importanti il secondo posto nel campionato jugoslavo durante la stagione 1956/1957: il titolo va alla Stella Rossa, che vince per la quarta volta la competizione locale.
Boskov arriva a quella stagione con la forza dell’esperienza internazionale: nel 1951, all’età di 20 anni, viene convocato nella nazionale jugoslava. Ne diventa un elemento chiave, mettendosi in mostra ogni volta che viene chiamato in causa. Così si guadagna, due anni più tardi, nel 1953, la chiamata da parte della Fifa per giocare nella selezione dei giocatori del Resto d’Europa: con lui, a sfidare la Gran Bretagna, c’è anche Boniperti, col quale Boskov ha sempre raccontato di aver avuto un rapporto particolare. Fino ad andare a caccia insieme una volta, a Novi Sad: una passione che li univa e che aveva trovato terreno fertile nel padre di Vujadin, presidente di un’associazione di caccia. Con la Nazionale jugoslava gioca alle Olimpiadi del 1952, arrivando fino alla finale contro l’Ungheria: ad allenarlo c’è Milorad Arsenijevic, ma nella squadra avversaria c’è Puskas, guida di quei Mighty Magyars, che in quella rassegna calcistica vincono tutto, segnano 20 reti e ne subiscono solo 2. Uno scontro impari per la Jugoslavia di Boskov.
Con quella nazionale, però, Vujadin disputa due campionati del mondo: il primo nel 1954, in Svizzera, arrivando fino ai quarti di finale, dove il sogno si infrange contro la Germania Ovest, poi campione. Quattro anni più tardi la storia non cambia: il Mondiale si gioca in Svezia e ancora una volta il sogno si infrange ai quarti, sempre contro i tedeschi, ma in un’amichevole di preparazione alla kermesse scandinava c’è l’incontro con Pelé, che quell’anno si consacra vincendo la competizione. Lo marca, lo scopre, lo affronta a viso aperto. Con questa grande esperienza e con una crescita professionale importante Boskov conduce il suo Vojvodina al secondo posto in classifica nella Prva Liga, un record che verrà battuto solo quando Vujadin ne diventerà allenatore e la condurrà alla vittoria del campionato nel 1964.
Prima di appendere gli scarpini al chiodo, però, la carriera di Boskov vive di tre eventi straordinari, da intendere come fuori dall’ordinario. Il primo appartiene al 1958, quando dopo una carriera che lo aveva visto sempre in campo anche con la nazionale, viene travolto da un avversario durante una partita. Un infortunio alla gamba che lo tiene in bilico per ben due anni, costretto a dei recuperi che ne condizionano la carriera. A distanza di due anni ne compie 30 e finalmente la Jugoslavia gli dà la possibilità di partire. Lo chiama il presidente Ravano e l’allenatore Monzeglio: entrambi lo vogliono alla Sampdoria. Reduce da un quarto posto in Serie A, il club blucerchiato è impegnato nella Mitropa Cup e insieme a Vujadin Boskov arriva anche Veselinovic. Monzeglio decide di presentarli sfruttando il palcoscenico dell’incontro che la Sampdoria disputa con lo Stalingrad di Praga: una formazione d’emergenza, quella del Doria, che senza Ocwirk, Skoglund, Brighenti e Vincenzi deve accontentarsi dei due nuovi arrivati. Per i due jugoslavi c’è grande attesa, al Marassi c’è il pubblico delle grandi occasioni e Boskov arriva a Genova diversi giorni prima: si allena, perché a corto di preparazione, e si prepara a godersi la nuova piazza.
Nell’anno successivo con la Sampdoria disputa 13 partite, trovando anche un gol: segna al Venezia il 29 ottobre del 1961, siglando il momentaneo 1-0, al quale poi risponde Rossi al 78’. Quell’anno il Doria di Monzeglio, con presidente Ghetti, arriva decimo in classifica, venendo eliminato dalla Coppa Italia al secondo turno eliminatorio, dopo i rigori col Napoli persi 6-7. Un modo diverso di affrontarsi, con i calci dal dischetto affidati a un prescelto per squadra, il campione di turno: per i partenopei è Corelli, per i genovesi è Vincenzi, che sbaglia il settimo tiro. Si calciano sei rigori, poi se dopo questi il risultato è ancora in parità, si procede con la regola del “il primo che sbaglia perde”. La stagione di Boskov è bersagliata da problemi fisici, arriva a Genova già un po’ stanco, stempiato, affaticato dall’infortunio subito in Jugoslavia. Quella maglia numero 7 sventola poco, perché non è da calciatore che Vujadin fa breccia nel Baciccia: lo farà da allenatore. Alla fine di quella stagione, quindi, accetta la chiamata dei Young Fellow, società di Zurigo fondata nel 1903 e sparita poi nel 1992, per la fusione con la Juventus Zurigo, che oggi si chiama Young Fellows Juventus e milita nella Promotion League, la terza serie del campionato svizzero.
La squadra, all’arrivo di Boskov, è in fase calante: l’ultimo grande traguardo appartiene al secondo posto in campionato del ‘36, coinciso con la vittoria della Coppa nazionale. Per Vujadin è una sorta di pre-ritiro dal calcio, perché la condizione fisica non è più quella di un tempo. Si allena, gioca poco, fa il suo dovere, poi durante una partitella il suo allenatore, Patek, si fa male a un ginocchio: lo chiama a sé e gli cede il fischietto, chiedendogli di continuare ad allenare la seduta. L’anno successivo la dirigenza decide di promuoverlo ad allenatore-giocatore, armato di fischietto, pronto a dare ordini. È in quel momento che il fischietto diventa un simbolo, diventa l’oggetto di Vujadin Boskov, protagonista anche di un famoso scherzo che Luca Vialli gli fa ai tempi della Sampdoria, nascondendoglielo: “Ridatemelo o vi ammazzo”. Il fischietto torna a farsi vedere, la disciplina alla Sampdoria anche: quella che Vuja aveva imparato in Jugoslavia e che lo condurrà, una volta appesi gli scarpini al chiodo e sedutosi in panchina, a vincere lo Scudetto con la Sampdoria. A fare la storia della squadra blucerchiata.