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Racconti Europei - Il rito ipnotico dell'Islanda

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Insieme alle lacrime di CR7, costretto a vedere la finale da (vittorioso) spettatore, e ai rigori-meme di Zaza e Pellè contro la Germania, Euro 2016 ci ha lasciato un’altra immagine fortissima, probabilmente la più forte di tutte. Una squadra che al termine delle partite andava davanti alla tribuna dove c’erano i suoi tifosi, e si lasciava andare a un rito ipnotico. Il capitano batteva le mani ed emetteva un grido di battaglia, venendo poi seguito dai compagni e dal pubblico, sempre più ritmato, sempre più veloce. Un rito, più che un semplice coro: il suo nome è Geyser Sound e lo hanno svelato al mondo i giocatori dell’Islanda.

La presenza stessa dell’Islanda a Euro 2016 arrivò non del tutto a sorpresa – due anni prima perse lo spareggio contro la Croazia per andare ai Mondiali in Brasile – e tuttavia ci si impiegò poco per riconoscerne la grandezza. Un Paese di 350mila abitanti, meno di Malta e Lussemburgo per capirci, che senza ricorrere a naturalizzazioni più o meno facili riusciva a sedersi al tavolo delle grandi d’Europa. Come era possibile?

Matt McGinn, nel suo libro “Against the elements”, individua due momenti fondanti dell’esplosione del calcio islandese: l’ingresso nel SEE, lo Spazio Economico Europeo, che dal 1994 consente agli islandesi di godere della stessa libertà di spostamento nella UE rispetto ai Paesi membri dell’Unione, e la coeva Sentenza Bosman. Due fattori che hanno reso possibile ai club europei poter investire sui giovani islandesi senza sprecare uno dei preziosissimi “slot” per stranieri dell’epoca pre-Bosman. Al resto hanno pensato gli stessi calciatori: in un Paese che usa un’espressione, “Heimskùr”, che vuol dire sia “quelli che restano a casa” sia “stupidi”, il messaggio era chiaro. Partite, rischiate, noi vi aspetteremo.

L’ingresso nel SEE portò anche ricchezza e benessere in un Paese fino ad allora molto isolato, in cui fino alla metà degli anni’80 la tv locale restava chiusa ogni giovedì e in tutto il mese di luglio, e fino al 1989 la birra era illegale. Il benessere si riflesse anche in una maggiore cultura sportiva, nella quale il calcio giocò un ruolo preponderante ma non monopolista, visti ad esempio gli ottimi risultati della Nazionale di pallamano. L’uomo della provvidenza per il calcio islandese si chiamò Siggi Eyjolfsson, un ex calciatore di 29 anni nominato nel 2002 presidente della KSI, la Federcalcio locale.

La rivoluzione di Siggi si fondò su una dote che nel calcio di oggi si trova raramente: la pazienza. Impiegò due anni per ottenere il riconoscimento dalla UEFA del suo corso allenatori, dopodichè, anche in virtù delle distanze interne, portò il corso in tutte le cittadine islandesi, rendendolo aperto a tutti coloro fossero interessati. Il risultato è che nel 2018, 669 islandesi avevano il patentino UEFA B, altri 240 l’UEFA A, e altri 17 in collaborazione con la FA inglese avevano ottenuto l’UEFA PRO. In pratica tutte le squadre di calcio islandesi, comprese quelle giovanili fin giù all’iniziazione calcistica, hanno un allenatore patentato. Un sistema alimentato dalla responsabilizzazione dei singoli club, che se non fanno seguire a tutti i loro allenatori la necessaria formazione, perdono la licenza.

Birkir Bjarnason Iceland Euro 2016Getty Images

In un contesto del genere, nel quale si inseriscono tra le altre cose gli investimenti per i campi regolamentari indoor, fondamentali per non perdere l’allenamento durante i mesi più freddi, è evidente che qualche buon risultato sarebbe arrivato. I club islandesi non hanno la forza economica per trattenere i loro prospetti, che solitamente fanno il salto verso l’estero poco prima della maggiore età, completando la loro formazione in Paesi culturalmente affini come Svezia, Inghilterra o Olanda. È quasi superfluo a questo punto sottolineare come nessuno dei 23 convocati dal CT Lagerback (svedese, lunghissima esperienza internazionale: un altro tassello al posto giusto) e dal suo vice Heimir Hallgrìmsson (professione dentista, non è uno scherzo) per l’avventura in terra francese giocava nell’Urvalsdeild, il massimo campionato locale.

Il girone si prospettava tosto ma non impossibile, contro Portogallo, Ungheria e Austria: per una squadra che nelle qualificazioni si era lasciata alle spalle nel girone Turchia e Olanda, si trattava di una grande occasione da sfruttare. E infatti lo scotto del debutto venne tutto sommato attutito da un buon 1-1 contro i futuri Campioni d’Europa: il goal del pareggio lo fece Bjarnason, che un anno prima suo malgrado creò un’incredibile shitstorm tra Reykjavik e... Pescara. Già, perchè il centrocampista giocava al tempo per gli abruzzesi, che non poterono contare su di lui nella finale dei playoff di B contro il Bologna proprio perchè convocato dalla sua Nazionale. Un anno dopo sarebbero stati tutti contenti: Islanda all’Europeo e Pescara finalmente promosso in A (senza Bjarnason, ceduto nel frattempo al Basilea) dopo un drammatico playoff con il Trapani.

Un altro pareggio, ben più sfortunato contro l’Ungheria (1-1) costringeva gli islandesi a munirsi di calcolatrice e cardioaspirina per l’ultima giornata: in caso di terzo pareggio contro l’Austria la qualificazione poteva essere possibile anche come migliore terza, ma bisognava in ogni caso tenere d’occhio i risultati altrui. Jón Daði Böðvarsson portava in vantaggio gli islandesi al 18’, il pareggio austriaco arrivava solo al 60’ con Schopf: nel frattempo, a Lione tra Portogallo e Ungheria succedeva letteralmente di tutto, con un 3-3 che qualificava simultaneamente entrambe le squadre, in particolare il Portogallo, a 3 punti esattamente come gli islandesi ma con un gol segnato in più.

Tutto questo fino al 4’ di recupero, quando Arnór Ingvi Traustason in spaccata finalizzò l’ultimo attacco islandese regalando la vittoria per 2-1 e il contemporaneo sorpasso ai danni del Portogallo al secondo posto nel girone. Che fosse davvero Traustason, modesto centrocampista del Norkkoeping, lo si capì giusto dal numero di maglia, perchè la telecronaca in islandese di un Gudmundur Benediktsson sopraffatto dall’emozione e dall’adrenalina divenne in breve tempo un cumulo di mugolii inintelligibili probabilmente anche a Reykjavik. Ovviamente virale in tutto il mondo.

Ma cosa importava! L’Islanda era agli ottavi di finale dell’Europeo. Solo che l’avversario era l’Inghilterra, la solita Inghilterra lanciatissima nel “bringing back home” il trofeo di turno, Mondiale o Europeo che sia. A “sending back home” Rooney e compagni ci pensarono contro ogni pronostico proprio i ragazzi di Lagerback, che a Nizza ribaltarono nel giro di un quarto d’ora il vantaggio iniziale di Rooney con i quasi omonimi Sigurðsson e Sigþórsson, resistendo poi senza barricate fino al fischio finale. Se vi chiedete cosa sono quegli strani sgorbi nei cognomi islandesi, beh è presto detto: sono due lettere esclusive dell’alfabeto locale. La “ð” è una sorta di “d” muta, mentre “þ” suona abbastanza simile al “th” inglese.

Ubriachi di gioia, adrenalina e dell’affetto non solo della popolazione (il 6% degli islandesi era in trasferta in Francia...), ma anche della stragrande maggioranza dei tifosi neutrali, che li hanno adottati come seconda squadra senza grossi dubbi, gli islandesi sapevano bene che la loro favola era destinata a finire a un certo punto: e quando il tabellone li abbinò alla Francia, beh, il messaggio era chiaro. Contro i padroni di casa scese in campo una squadra svuotata nella testa, sotto 0-4 all’intervallo, e che solo nel secondo tempo riuscì a contenere il divario entro certi limiti evitando di rovinare una storia in ogni caso fantastica. L’ultimo Geyser Sound in terra francese fece entrare la proverbiale bruschetta nell’occhio agli appassionati di tutta Europa, idem il trionfale ritorno della squadra a Reykjavik il giorno dopo.

A EURO 2021 l’Islanda non ci sarà: il ridimensionamento dopo l’avventura al Mondiale di Russia è apparso evidente e per certi versi inevitabile, ma non definitivo. Presto l’“Islenska geoveikin”, la “follia islandese” tipica degli abitanti dell’isola, una grande fiducia in se stessi mischiata a serena incoscienza, farà rivivere al calcio islandese i dolci giorni francesi di cinque anni fa.

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