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"Que suerte hay que tener al nacer" cantano gli Ska-P in Planeta Eskoria, traccia d'apertura dell'omonimo album datato 2000. Per sfuggire alla fame, la miseria e la guerra, bisogna essere fortunati: quando si viene al mondo. Nazioni dimenticate, popoli ridotti alla fame da decenni, nessuna prospettiva. Bisogna essere fortunati, ritornello. Se si nasce a Salisburgo, beh, difficilmente sarebbe potuta andare meglio. Una città che trasuda cultura, risuona di musica antica ma talmente attuale da essere probabilmente l'unica realmente immortale. Alexander Manninger è sempre stato consapevole di avere avuto un fato favorevole.
Divenuto portiere negli anni '80 come tanti piccoli colleghi, ovvero dopo essersi ritrovato per caso a difendere quei pali che nessuno, da bambino, vuole affrontare, Manninger è cresciuto a Salisburgo, amandola. In ogni sua intervista, in tutti gli interventi durante la carriera in Serie A e dintorni europei, ha rimarcato la bellezza della sua città d'origine. Evidenziando, giorno dopo giorno, microfono dopo microfono, di volerci tornare. Più il calcolo dell'età nel passaporto saliva e il calcio cambiava volto, più Alexander vedeva una nuova vita lontano da tutto il circo sportivo. Alla ricerca della sua vecchia vita di costruttore, falegname, persona comune.
Come dargli torto? Tornare a Salisburgo dopo vent'anni di weekend preparati con i colleghi/compagni di squadra, per godersi famiglia, natura e città: non sembra male. Ha giocato per la Juventus, vinto uno Scudetto. E' sbarcato a Liverpool nell'ultimo anno della carriera, indossato per una decade la maglia della Nazionale biancorossa, austriaca. Non è stato Buffon, amico fraterno nel periodo bianconero, ma neanche uno sconosciuto totale. Ora, a 46 anni, dopo 6 dall'addio al professionismo, preferisce esserlo.
Quando passeggia per una Salisburgo turistica che gira attorno alla figura del suo cittadino più famoso, uno che di nome faceva Johannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus, ma soprattutto portava il cognome Mozart, adora non essere fermato per strada. Selfie, foto sfuocata, guardate chi ho incontrato amici. Bah.
JUVE E SIENA: FALEGNAME IN BIANCONERO
Dal 2008 al 2012 alla Juventus, quinta squadra italiana della sua vita dopo Fiorentina, Torino, Bologna e Siena, Manninger è stato uno di quei giocatori capace di vivere sia la Madama vecchia e ingobbita dagli eventi calciopoliana, ma anche la signora di mezza età riuscita a ripartire dopo un lutto sportivo del genere ("Sono orgoglioso di aver giocato con Buffon, nella squadra più famosa al mondo. Anche se non era quella che si vede oggi e nemmeno quella che si ammirava negli Anni '90 oppure a inizio Duemila"). Si è dato da fare per riapprezzare la vita e piegarla al suo volere. Ritorno: una parola che probabilmente Alexander sceglierebbe in una lista di vocaboli preferiti
GettyCresciuto in un Salisburgo senza le ali della Red Bull, ha avuto modo di tornarci dieci anni dopo, proprio durante il totale cambiamento del club. Non gli è piaciuto per niente. Il calcio stava perdendo sempre più il ruolo di sport, affogato nel marketing e nella ricerca di una buona impressione. Un teatrino a cui Manninger non voleva assistere, conscio però dell'amore per la squadra principale della sua città. Una sola annata. Ritorno. Come quello a Siena, subito dopo la stagione in patria ("Siena è stata indimenticabile per me: la considero la tappa più importante della mia carriera, lì sono stato felice. Sento ancora qualche amico che vive in città: gli ex vicini di casa, il proprietario di un negozio. Ogni 2-3 anni ritorno a Siena per fare le vacanze. Mi è rimasta nel cuore"). Ritorno, a casa.
Svuotato dal calcio, dirà Manninger. Schiacciato da un mondo rivoluzionato, dalla routine della settimana di allenamenti, dei weekend senza famiglia. Delle polemiche, dei nuovi loghi. Di maglie, guantoni, perfezione richiesta. Tutto il contrario rispetto ai primi anni, quando il calcio era un gioco e il mondo della falegnameria uno sbocco lavorativo certo se qualcosa fosse andato storto. Niente ha virato verso la delusione, ma non ha voluto essere lobotomizzato ad una vita legata per sempre al pallone.
"Da giovane ho fatto il falegname e sì, lo faccio ancora: mi piace tantissimo costruire case - ha confessato a 'Il Posticipo' nel 2020 - Sto poco dietro ai macchinari, ma decido quello che dobbiamo fare. Sono ben inserito all'interno dell'impresa immobiliare. Da ragazzino ho fatto l'apprendista da falegname fino all'epoca del diploma, poi ho smesso per il calcio. Sono molto orgoglioso di aver fatto un'altra professione. Nella mia vita mi sono sempre messo in gioco e mi è sempre piaciuto lavorare".
Manninger non ha mai visto il calcio come un 'lavoro vero'. Ne parla come qualcosa di staccato dalle professioni più comuni. E' consapevole di essere stato un privilegiato anche in questo senso. Il lavoro è altro, qualcosa che conduce a diversi sacrifici. Meno soldi, più ore, più fatica, meno copertine e interviste. Diciamo anche zero.
Nel 2017, a Kicker, Manninger si scagliava contro una nuova generazione baciata dal talento, lontana dalla realtà dei coetanei:
"Non hanno mai lavorato e non sanno cosa significhi non essere un calciatore. Non conoscono questo stress esistenziale, perché a 16 anni guadagnano già quanto il falegname più pagato".
Uno stipendio normale per i dipendenti, direbbe qualcuno. Ricco, per il mondo NEET (acronimo che indica chi non è impegnato nello studio, né nel lavoro né nella formazione). Più alto per chi come Manninger ha creato un network capace di mettere insieme tutti i componenti dello stesso mondo. Ok l'amore per il legno e la costruzione della propria idea, ma meglio andare oltre:
"Ovviamente facciamo una cosa più in grande, perché a fare solo il falegname fai poca strada - ha dichiarato a TMW - Ma questa esperienza e le conoscenze acquisite mi hanno permesso di occuparmi di arredamenti, costruzioni. Ho creato un network con i professionisti, che sono falegnami, muratori, giardinieri. Mi trovo con gli architetti. In pratica se uno ha un terreno o una casa da ristrutturare, quindi con mobili nuovi e finestre nuove ci sono io a occuparmene. È un lavoro che mi piace tanto".
Il cognome Manninger, in Austria, fa rima spesso con falegnameria e costruzioni. Basti pensare alla Wohnen & Handwerk Manninger Möbel GmbH nei dintorni di Graz, a tre ore dalla Salisburgo di Alexander. Niente di speciale, sia chiaro: come se in Italia due famiglie di cognome, vediamo un po', Fantini, si occupassero di vendita di prodotti per la casa. Può succedere. E' chiaro che in un campione di 1000 persone, tutti riconoscerebbero il cognome per essere legato al calcio. Rovescio di medaglia, qualcosa a cui Alex non punta.
Getty/GOALMOZART CHIAMA: SALISBURGO
"Appena ho finito di giocare ho subito saputo che la mia casa sarebbe stata di nuovo l'Austria, vale a dire Salisburgo - ha confessato a 'laola1' - Apprezzo quello che ho e da dove vengo. Voglio vivere come qualcuno che non ha giocato a calcio. Sono un falegname addestrato, sono di nuovo radicato lì. Mi occupo molto dell'arredamento immobiliare, della situazione edilizia. Sono tornato alle origini".
Niente più guantoni, nonostante le chiamate dalle vecchie glorie con 40 kg in più. Nah. Niente più calcio in tv, con le dovute eccezioni. Niente social network: zero di zero per Manninger. Troppo difficile accettare in che modo, giusto o sbagliato che sia, si è evoluta la sua professione:
"All'inizio era lavoro, lavoro e sport. È diventato media, sport e marketing. Ora si tratta principalmente di recitazione, social media e adattamento all'immagine. Non voglio giudicare quale epoca sia il migliore, ma i fattori sono completamente cambiati. Talento, voglia di allenarsi, motivazione: è diverso da 15 o 20 anni fa. I giovani ora sono professionisti che si aspettano di decidere le partite. Questo non esisteva ai miei tempi".
"Mi manca poco il calcio in sé. Mi manca poter condividere successi ed emozioni coi miei compagni di squadra, poi l'odore dello spogliatoio. Non mi manca il calcio che ti fa stare tutti i weekend in giro e che non ti permette di fare altre cose. Non mi manca nemmeno il mondo del lavoro in cui ti dicono che cosa devi fare e quando devi farlo. Il 90% di ciò che devi fare da calciatore è programmato e non hai spazio per altro".
Da professionista non è mai stato nostalgico. Sapeva di essere un privilegiato, che poteva accumulare una fortuna per tornare al suo passato: serviva solo un po' di tempo. Dopo la parentesi Augsburg e l'annata di Liverpool senza presenze a 40 anni, l'addio. L'ultima crocetta nel calendario, per tornare a casa:
"Dopo vent'anni non vedo l'ora di tornare a casa. Salisburgo fortunatamente è un posto meraviglioso sulla terra - disse a 'oepb.at' dopo il ritiro dalle scene - C'è di tutto lì, dai laghi alle foreste, agli animali e in quattro ore sono al mare. In giro raramente c'era qualcosa di uguale valore. A Londra, per esempio, è stato bello, ma a dire il vero non avrei immaginato di veder crescere una famiglia lì. La città è semplicemente troppo grande per me. Ero un falegname. Non mi disturba alzarmi presto la mattina e imparare qualcosa di nuovo. Sono sempre stato interessato al settore immobiliare, ai servizi, al modo di vivere con questo lavoro".
Ha avuto fortuna a nascere a Salisburgo. Lo sa, lo sta sfruttando. Ha ricostruito la sua vita con martello, seghetto e scalpello. Ha dovuto solo attendere la fine dei giochi.