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La leggenda di Luis Silvio: il ‘padre di tutti i bidoni’, tradito da una vocale

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E’ il 10 agosto 1980 e la Roma-Fiumicino è intasata come non mai. In migliaia infatti hanno deciso di sfidare il torrido caldo estivo e di dirigersi verso l’aeroporto con qualunque mezzo a disposizione. Che si tratti di un’auto, di una moto, di un bus o di una bicicletta poco cambia, c’è un appuntamento con la storia e in tanti vogliono presentarsi puntuali.

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Alle nove del mattino il ‘Leonardo da Vinci’ è già uno spettacolo di colori. O meglio, due colori: il giallo ed il rosso.

Il piazzale dell’aeroporto si trasforma in una piccola curva da stadio. Vengono sventolate bandiere, sciarpe e intonati cori, e ad ogni aereo che si vede arrivare in lontananza, c’è qualcuno che grida “Eccolo! E’ lui!”.

L’aereo che tutti aspettano è un DC 10 Alitalia proveniente da Rio de Janeiro e il suo passeggero più illustre è un calciatore che, prima ancora di far vedere cosa è capace di fare in un campionato come quello italiano, ha già conquistato i cuori di tutti i tifosi della Roma: Paulo Roberto Falcão.

Quando il centrocampista brasiliano atterra, impeccabile in giacca e cravatta, ad accoglierlo trova decine di giornalisti e oltre cinquemila tifosi che urlano al cielo il suo nome e che sono pronti a tutto per un autografo o anche semplicemente per vederlo da vicino.

Quello che in pochi sanno è che sullo stesso DC 10 proveniente da Rio, a pochi metri di distanza da colui che diventerà l’’Ottavo di Re di Roma’, ha viaggiato anche un altro calciatore destinato a diventare un protagonista della Serie A: Luis Silvio Danuello.

A differenza di Falcão, ad attenderlo non c’è quasi nessuno, ma anche per lui il cammino che conduce all’uscita dell’aeroporto non sarà privo di problemi. A rallentarlo non saranno tifosi, fotografi, curiosi e giornalisti, bensì un’irregolarità nel passaporto.

Una volta sistemate, non senza fatica, tutte le pratiche del caso, anche Luis Silvio si troverà spalancate di fronte a sé le porte dell’Italia, del calcio nostrano e di quel corridoio che conduce direttamente ad un posto nella storia.

Pochi mesi prima, il 9 maggio del 1980, il Consiglio Federale aveva deciso di riaprire le frontiere. Nel 1966, dopo la clamorosa eliminazione dai Mondiali per mano della Corea del Nord, si era stabilito che nessun calciatore straniero sarebbe stato più tesserabile in Italia.

Era stata questa la ‘medicina’ scelta per curare un calcio in non grandissima salute, che dai tempi della Nazionale di Vittorio Pozzo non era più riuscito a togliersi soddisfazioni a livello internazionale.

Nel 1980 i problemi del calcio italiano sono diversi e anche più gravi. Lo scandalo del ‘Totonero’ ha trascinato alla sbarra molti calciatori, alcuni anche famosissimi, diversi club sono stati penalizzati, tra i quali il Milan che viene retrocesso in Serie B, e nei programmi televisivi e sui giornali si parla più di processi che di cose di campo.

La gente inizia a mostrare una certa disaffezione per il calcio, gli stadi si riempiono sempre meno (gli Europei del 1980 organizzati proprio dall’Italia si riveleranno un flop da questo punto di vista) e sul piano del gioco sono pochissime le squadre che propongono un qualcosa di spettacolare e innovativo.

La scelta di riaprire dunque le frontiere è figlia della volontà di proporre un qualcosa che renda la Serie A più attraente. Si punta quindi sul fascino per l’esotico e sul desiderio dei tifosi di vedere in campo stelle internazionali di prima grandezza. Una per squadra, non di più.

Molte società fiutano dunque l’affare: uno straniero in rosa vorrebbe dire migliorare il tasso tecnico della squadra, ma anche maggiori incassi al botteghino.

Ascoli, Brescia, Cagliari, Catanzaro e Como scelgono di non battere un sentiero che non conoscono e di investire i loro soldi esclusivamente su giocatori nostrani, mentre tutte le altre società cedono al fascino della novità. Tutte compresa la neopromossa Pistoiese.

Per il club toscano si tratta di una prima volta assoluta in Serie A. Era già stato in massima serie, ma allora erano gli anni ’20 e c’era la Divisione Nazionale a gironi plurimi.

La Pistoiese, per festeggiare un evento storico, decide di fare le cose in grande ed è in questo esatto momento che la vicenda prende i contorni della trama di un film (la cosa non sarà casuale).

Il presidente Marcello Melani vuole il suo straniero e deve arrivare dal posto che fa sognare di più in assoluto: il Brasile.

Dopo quattordici anni di ‘blocco totale’, le conoscenze dall’altra pare dell’oceano sono poche e serve dunque qualcuno dotato di ‘occhi esperti’ che si rechi sul posto a visionare da vicino cosa offre il mercato. L’obiettivo è prendere un attaccante bravo dal punto di vista tecnico, che garantisca i goal necessari per la salvezza e soprattutto che costi poco.

In Brasile viene dunque mandato Giuseppe Malavasi, il vice di Lido Vieri, ovvero l’allenatore in seconda. Inizialmente gli parlano di Palinho, un giocatore del Palmeiras, ma la strada che porta alla sua firma diventa subito non percorribile: costa troppo.

Alcuni intermediari del posto gli consigliano allora di rivolgere le sue attenzioni sulla Ponte Preta, una piccola società che nel corso degli anni si è specializzata nello scovare e lanciare giovani talenti.

Proprio in quei giorni è in programma un’amichevole tra la ‘Ponte’ ed il Comercial e la cosa rappresenta ovviamente un’occasione da sfruttare. Malavasi si reca alla partita, osserva i giocatori in campo, e tra tutti ce n'è uno che è nettamente una spanna sopra gli altri.

E’ veloce, tecnico, sfodera giocate da talento assoluto e, come se non bastasse, impreziosisce la sua prestazione con un paio di reti. Tra tutti gli uomini visti in campo, non c’è dubbio su chi puntare: si chiama Luis Silvio e, per quanto visto, ha tutto ciò che serve per fare la differenza anche in Italia.

Tempo dopo si parlerà di quell’amichevole come di una partita truccata e organizzata di proposito per far fare bella figura al ragazzo e di conseguenza per rifilare il più classico dei ‘pacchi’.

Luis Silvio, in un’intervista rilasciata nel 2007 a ‘La Gazzetta dello Sport’, smentirà nella maniera più assoluta la cosa.

“La Ponte Preta non truccò una partita per convincere l’osservatore della Pistoiese. Non ne aveva bisogno, nel 1980 in Brasile io avevo mercato”.

Quello che è certo è che Malavasi chiama in Italia e comunica ai suoi dirigenti di aver portato a termine la sua missione: c’è un giocatore forte, che ha solo venti anni, e che costa appena 170 milioni di lire. Riceve subito il ‘via libera’ a procedere.

La cifra per l’acquisto del cartellino è assolutamente accessibile, anzi si risparmia anche qualcosa rispetto al budget fissato, e l’attaccante accetta un ingaggio da cinquanta milioni a stagione. Pochissimo rispetto a quanto percepito dai Falcão, i Brady, i Bertoni e i Krol, ovvero i più forti stranieri giunti in Serie A quell’anno.

Su Luis Silvio si riversano molte delle speranze della Pistoiese e dei suoi tifosi, ma al momento del suo arrivo in Italia c’è chi resta colpito dalla sua corporatura. E’ alto poco più di un metro e sessanta e non ha propriamente il fisico del corazziere da area di rigore.

A questo punto si consuma un clamoroso malinteso. Gli viene chiesto se lui sia effettivamente una punta e la risposta è assolutamente affermativa. In portoghese però ‘ponta’, galeotta fu una ‘o’ al posto della ‘u’, vuol dire ala.

“All’aeroporto di Roma incontrai i dirigenti della Pistoiese e un signore mi chiese: ‘Sei una punta?’. Risposi di sì, perché avevo capito ‘ponta’, con la o, che in portoghese vuol dire ala - racconterà ancora a ‘La Gazzetta dello Sport’ - Io quello ero: un’ala destra, uma ponta direita. Firmai e mi ritrovai centravanti, fuori ruolo. Un disastro. Da me si aspettavano tanti gol, ma ero uno specialista del cross e al massimo potevo fare la seconda punta, con la ‘u’, come dite voi. Punta, ponta: rovinato da una vocale".

Luis Silvio non può saperlo, ma la sua avventura italiana è dunque nata male. La sua volontà di far bene però c’è tutta e lui non fa nulla per nasconderlo.

“Punto sui dribbling - si leggerà in quei giorni su ‘La Repubblica’ - i vostri difensori dovranno essere molto veloci nel marcarmi”.

A Pistoia tutti attendono con impazienza di vedere all’opera il nuovo gioiellino brasiliano e la storia narra che al suo primo allenamento con la sua nuova squadra, abbia lasciato tutti a bocca aperta con una rovesciata da cineteca.

All’esordio in campionato, il 14 settembre 1980 contro il Torino, resta in campo per tutti e i novanta minuti senza destare grandissime sensazioni. Una settimana dopo però, la musica cambia: al debutto in casa contro l’Udinese finisce 1-1 e il cross per il primo storico goal in Serie A dell’’Olandesina’ siglato da Paolo Benedetti è proprio il suo.

Luis Silvio quindi, in qualche modo si ritaglia un posticino nella storia del club, ma sarà quella l’unica soddisfazione che darà ai suoi dirigenti e ai suoi tifosi. Nelle successive tre partite non tocca palla, venendo letteralmente fagocitato dai difensori avversari e, dopo aver trascorso lunghi mesi tra casa e tribuna, tornerà a calcare un campo della Serie A solo a fine marzo, negli ultimi minuti di una partita persa 3-0 a Perugia.

Sarà la sua sesta e ultima presenza nel torneo. Da quel momento in poi di lui si perderanno le tracce e il mito a diventa leggenda… o viceversa.

Nel corso degli anni iniziano a circolare voci di ogni tipo sul suo conto. C’è chi giura di averlo visto in azione in film erotici, chi dice che venda bibite allo stadio di Pistoia, mentre altri asseriscono di essere stati nel suo bar.

“Sono stufo delle bobagens (cavolate, nda) che voi italiani scrivete su di me - dirà a ‘La Gazzetta dello Sport’ - Il mio secondogenito, Lucas è un drago dei computer e ogni volta che su ‘Google’ digita ‘Luis Silvio Danuello’ è sommerso dalle bugie sul conto di suo padre. La balla più grossa è quella dei gelati allo stadio di Pistoia: lasciai l’Italia nel 1981 e non sono più tornato. Ho investito i guadagni del calcio nella ‘Maripeças’, rivendita di ricambi per macchine industriali. Quel che mi offende, invenzioni a parte, è che si parli di me come se fossi stato scarso. Nel ’79 venni eletto calciatore rivelazione del Brasile. Ho giocato in club di primo livello: Palmeiras, Ponte Preta, Botafogo di Riberao Preto”.

Chiusa in fretta e furia la sua avventura italiana, tra l’altro con la retrocessione della Pistoiese in Serie B, tornerà in Brasile, dove porrà fine alla carriera a soli ventisette anni dopo alcune parentesi tutt’altro che esaltanti.

A Luis Silvio sono bastate comunque sei sole partite per guadagnarsi una posto nella storia del calcio italiano. E’ infatti considerato il ‘Padre di tutti i Bidoni’ e ancora oggi, girando per le strade di Pistoia, su alcuni muri si può leggere la scritta ‘Luis Silvio c’è’.

La sua storia ha tra l’altro ispirato uno dei film più amati in assoluto dagli appassionati di calcio italiani: ‘L’allenatore nel Pallone’.

Come Malavasi, Oronzo Canà (ovviamente interpretato da uno strepitoso Lino Banfi) si reca in Brasile per cercare un talento che costi poco e che possa rappresentare la nuova stella della Longobarda. Accompagnato da improvvisati intermediari, Bergonzoni (Andrea Roncato) e Giginho (Gigi Sammarchi), riesce a scovare un gioiello sconosciuto nel corso di una partita, ma a differenza di Luis Silvio, Aristoteles (interpretato da Urs Althaus) si rivelerà un giocatore capace di fare la differenza in Serie A.

La Pistoiese voleva scovare in Brasile in ragazzo di belle speranze… ha portato in Italia una leggenda.

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