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La “Guerra del calcio” tra El Salvador e Honduras: storia di un conflitto senza precedenti

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“Il calcio professionistico è quanto di più simile a una guerra” è una delle frasi più famose mai attribuite a Rinus Michels, per quanto spesso male trasposta, in un errato tentativo di semplificazione, come “il calcio è guerra”. Non era esattamente quello che “Het generaal” voleva dire, tuttavia il parallelo calcio-guerra ci dà l’assist per raccontare una storia vera che fa rivedere l’assunto di Michels sotto un’altra prospettiva.

Nell’estate 1969, cinque anni prima del Mondiale 1974 e della sfida tra Germania Ovest e Olanda e di quella tra le due Germanie, che si portavano dietro le scorie del secondo conflitto mondiale, si verificò un caso ancora più particolare, perché non si trattò né della trasposizione calcistica di un conflitto già esistente, né delle scorie di un sanguinoso conflitto che coinvolse la generazione precedente.

Nel caso della “Guerra del calcio”, il conflitto tra El Salvador e Honduras scoppiò, almeno superficialmente, in ragione di un evento sportivo. Come descritto dal giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuscinski, le tensioni tra i due Paesi crebbero in occasione delle due partite di spareggio per la qualificazione ai Mondiali del 1970, un evento al quale nessuna delle due Nazionali aveva mai preso parte e ritenuto dai rispettivi governi un potenziale volàno per l’orgoglio nazionale e una possibile egemonia, quantomeno “morale”, sui Paesi limitrofi del Centroamerica.

C’erano però tra i due Paesi anche fortissime tensioni sociali. Nel 1967 venne firmata una convenzione bilaterale tra i due Paesi che consentiva all’Honduras, che aveva abbondanza di terre incolte, di accogliere 300mila immigrati salvadoregni: due anni dopo, la dittatura di Oswaldo Lopez Arellano confiscò tutti i beni guadagnati dagli stessi immigrati salvadoregni, espellendoli dall’Honduras letteralmente solo con i vestiti indosso e riassegnando questi beni agli honduregni.

Con questi presupposti, è chiaro che gli eventi di quei giorni rappresentarono non solo due partite di calcio, ma anche un conflitto reale che coinvolse la popolazione a tutti i livelli. La gara d’andata si giocò in Honduras l’8 giugno 1969, e i tifosi locali fecero quanto in loro potere per partecipare “attivamente” all’evento: centinaia di persone si riunirono sotto all’albergo dove alloggiava la nazionale ospite per creare chiasso per tutta la notte e, nelle loro intenzioni, rendere impossibile il riposo degli atleti in vista della partita dell’indomani. Il giorno della partita, il pullman che trasportava la Nazionale salvadoregna fu preso d’assalto e gli pneumatici vennero tranciati.

Al termine della partita, vinta dai padroni di casa dell’Honduras per 1-0, si registrò il caso di cronaca della diciottenne salvadoregna Amelia Bolanos, che si sparò un colpo al cuore non potendo reggere il dolore della sconfitta. Il principale quotidiano salvadoregno “El nacional” titolò l’indomani ”La giovane non ha retto al dolore di vedere la sua patria messa in ginocchio”, strumentalizzando così la sua morte in chiave patriottica e considerandola implicitamente la prima vittima del conflitto. La settimana successiva, con la partita di ritorno in programma in El Salvador, Kapuscinski descrisse l’ambiente così:

“Stavolta fu l’Honduras a non dormire: una folla di tifosi urlanti spaccò tutti i vetri dell’albergo lanciando all’interno tonnellate di uova marce, topi morti e stracci puzzolenti. I giocatori furono portati allo stadio dentro i carri armati della Prima divisione corazzata del Salvador per proteggerli dalla folla che, assetata di vendetta e di sangue, si era ammassata lungo il percorso e sventolava la fotografia dell’eroina nazionale Amelia Bolanos”.

Non si trattava di una situazione normale e per almeno due motivi. Il primo: la partecipazione attiva della popolazione, che non potendo chiaramente scendere in campo contribuì alla causa con i mezzi a sua disposizione. Non era certo la prima volta che la tifoseria avversaria disturbava l’arrivo, il riposo e il soggiorno degli avversari prima di una partita: ma mai prima di allora una situazione del genere era stata organizzata e sostenuta in maniera “istituzionale”.

Il secondo motivo è il ruolo di Amelia Bolanos, che con il suo gesto estremo divenne un’eroina: il lutto nazionale con tanto di funerali di Stato in diretta televisiva, bandiera di El Salvador sul feretro e presenza alle esequie del Presidente della Repubblica e delle principali cariche dello Stato fu un modo per rendere la sventurata giovane una martire laica, la cui strumentalizzazione era funzionale a far accettare al popolo salvadoregno lo scoppio imminente della guerra.

Kapuscinski narra di fischi all’inno nazionale dell’Honduras, con i giocatori che videro la loro bandiera nazionale bruciata, venendo issato al suo posto uno straccio macilento: il massimo possibile del disprezzo a livello istituzionale.

Le tempistiche giocarono un ruolo fondamentale nella lettura del conflitto. La prima partita si disputò l’8 giugno 1969, la seconda il 15 giugno con la vittoria per 3-0 di El Salvador, il decisivo spareggio (che fu vinto per 3-2 da El Salvador) il 26 giugno in campo neutro a Città del Messico. La guerra vera, nel senso di conflitto armato, scoppiò il 14 luglio successivo e durò 100 ore, visto che il cessate il fuoco venne accordato il 18 luglio, sebbene solo il 5 agosto El Salvador accettò di ritirarsi definitivamente dall’Honduras.

Kapuscinski spiegò allora i veri motivi del conflitto:

“El Salvador è lo Stato più piccolo dell’America centrale, ha la maggior densità di popolazione di tutto il continente americano. Ci si sta stretti, tanto più che la maggior parte delle terre si trova nelle mani di quattordici grandi clan di latifondisti. (...) Due terzi della popolazione rurale non possiedono terra. Parte di quei poveri senza terra sono emigrati anni fa nell’Honduras, dove la terra di nessuno abbondava. (...) Fu un’emigrazione silenziosa e illegale, ma tollerata per anni dal governo honduregno. (...) Negli anni’60 sorsero delle agitazioni tra i contadini dell’Honduras che chiedevano terra. Il governo emanò un decreto di riforma agraria, e (...) intendeva dividere tra i contadini dell’Honduras la terra occupata dai contadini di El Salvador. Ciò significava che trecentomila emigrati salvadoregni dovevano ritornarsene in patria dove non possedevano niente. Ma il governo oligarchico del Salvador rifiutò di accogliere tutta quella gente, temendo una rivoluzione contadina”.

Senza quella doppia partita di calcio, successivamente esasperato da radio, tv e giornali, la tensione sociale già in atto da diversi mesi a causa di situazioni extra sportive non sarebbe sfociata così rapidamente in un conflitto. Per dirla senza ancora meno giri di parole: senza quel conflitto così esasperato, ma pur sempre ristretto all’ambito sportivo, le popolazioni dei rispettivi Paesi avrebbero accettato molto più difficilmente l’idea di un conflitto armato. Per chiuderla con le amare parole di Kapusczinski,

“I due governi sono rimasti soddisfatti della guerra, perché per qualche giorno Honduras e Salvador hanno riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo e suscitato l'interesse dell'opinione pubblica internazionale. I piccoli Stati del Terzo, del Quarto e di tutti gli altri mondi possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue”.

Le citazioni di Ryszard Kapusczinki sono tratte dal libro “La prima guerra del football”, edito in Italia da Feltrinelli.

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