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Amarcord Eder Baù, tra il Milan accarezzato e la Triestina dei miracoli

Stoccareddo è una minuscola goccia nel mare della topografia. Non è nemmeno un paese: è una frazione, per la precisione. Di Gallio, sull'Altopiano di Asiago, nel Vicentino. Sede dei ritiri precampionato del Lanerossi, conta poco meno di quattrocento anime, ma una quindicina d'anni fa è salita agli onori delle cronache italiane: uno studio ha rivelato la presenza di un gene protettivo che – pare – rendeva immuni i suoi abitanti da certe malattie, tipo il diabete.

In quel posto racchiuso tra i monti, se non ti chiami in un certo modo non puoi dire davvero di essere di Stoccareddo. Di quei quattrocento abitanti circa, la stragrande maggioranza ha lo stesso cognome: Baù. Molte di queste persone sono in qualche modo imparentate tra loro. Ogni tre anni la frazione ospita il Raduno Internazionale dei Baù, gente emigrata nel corso dei decenni, cresciuta altrove, in Italia e pure all'estero, e desiderosa di riabbracciare le proprie origini. L'ultima rimpatriata, l'undicesima, è datata 2019.

Anche Eder Baù, 40 anni oggi, ha partecipato al raduno. Del resto, a ben vedere, può essere considerato pure lui un emigrante. Il più famoso che Stoccareddo possa ricordare, almeno nei tempi moderni. Potenza del pallone. Un quarto di secolo fa il giovane Eder riempiva le valigie e se ne andava a Milano a caccia di un sogno a tinte rosse e nere. Il Milan lo ha notato a Bassano e se n'è innamorato. Affascinato, magari, anche da quel nome così esotico e brasilianeggiante: Eder. Come il mancino dinamitardo della Seleção '82. “A mio padre piaceva questo brasiliano, così ha deciso di chiamarmi come lui”, racconta Baù in esclusiva a GOAL.

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La serata da ricordare è il 22 febbraio del 2000. Il Milan sfida in amichevole la Dinamo Kiev, da cui ha da poco acquistato Andriy Shevchenko. Negli ucraini fa la propria comparsa Kakha Kaladze, pure lui futuro rossonero. E sulla panchina milanista, accanto ad Alberto Zaccheroni, siede più di un giovane della Primavera di Mauro Tassotti. Le gambe che tremano, la mente che già s'immagina l'esordio. C'è Andrea Rabito, lo specialista delle promozioni, sempre a un passo dalla Serie A senza mai riuscire concretamente a toccarla. E c'è Baù. I due diventeranno amicissimi, “ed è un'amicizia vera ancor oggi: un mese fa Andrea si è sposato e io gli ho fatto da testimone”.

Fa freddo, quella sera a Milano. San Siro è quasi vuoto: sono duemila le anime che hanno deciso di andare allo stadio a congelarsi le ossa. Segna l'ex Sheva, ma la Dinamo del colonnello Lobanovsky prima pareggia con Khatskevich e poi completa la rimonta con Demetradze. A un certo punto, nel secondo tempo, Leonardo si gira verso la panchina e chiede il cambio per un problema muscolare. Zaccheroni chiama Baù: ragazzo, tocca a te.

“Ero il più giovane di tutti – ci dice Eder – Prima della partita il mister mi aveva detto: guarda che giochi gli ultimi dieci minuti. Ma poi Leonardo ha avuto un problema al flessore: in realtà credo abbia fatto un po' apposta per farmi entrare. Non a caso nell'allenamento successivo già stava bene”.

Quando scende in campo a San Siro, Baù ha già lo sguardo proiettato al futuro. Spera – e come dargli torto? – di convincere il Milan a puntare su di lui. Seconda punta che nel corso della propria carriera si allargherà a fare l'esterno offensivo, è determinato a giocarsi le proprie carte. Magari non subito, questo no: appena avrà acquisito un po' d'esperienza. Il presente, intanto, è la Primavera, con cui nel 2000 arriva a sfiorare la vittoria del campionato: la finale, che Eder guarda dalla panchina, va al Bari di Antonio Cassano, in realtà assente in quanto già aggregato in pianta stabile alla prima squadra di Eugenio Fascetti.

Va meglio nel 2001, l'anno del secondo successo in tre edizioni del Torneo di Viareggio. Stavolta Baù gioca, è un titolare fisso, anche se nelle partite decisive deve convivere con un infortunio a una spalla. In semifinale è suo l'assist per la rete solitaria e decisiva di Gilardi. Nel primo tempo della finale, invece, calcia a lato il rigore del possibile vantaggio. Come Cabrini in Spagna. Ma come quell'Italia, il Milan di Tassotti batte per 3-1 i brasiliani del Vitória e si aggiudica la manifestazione.

“Non deve essere triste per quel rigore sbagliato: ha giocato con una spalla dolorante – dirà il tecnico un paio di giorni dopo la partita alla 'Gazzetta dello Sport' – E tanti nostri gol sono stati innescati dalle sue giocate”.

Dalla Primavera alla Serie C, il passo è piuttosto breve. Il classico prestito per farsi le ossa, sempre sotto lo sguardo vigile della casa madre. Nell'estate del 2001 è la Triestina a chiedere e ottenere dal Milan il prestito di Baù. A vent'anni è il momento di mettersi alla prova in un contesto ancor più competitivo, in un campionato in cui o sbrani o sei sbranato. Il giovane Eder, all'inizio, non può immaginare che cosa lo stia attendendo: violentemente accarezzato dai soffi della bora, si appresta a vivere le stagioni più belle della sua vita.

Triestina uguale C1. Da neopromossa, peraltro. Un doppio salto carpiato all'indietro. Ma Baù non si perde d'animo. Si ritaglia il proprio spazio in campionato, segna due volte nella stagione regolare, aiuta i giuliani di Ezio Rossi a conquistarsi un posto nei playoff. Dove diventa l'uomo chiave: la finale d'andata contro la Lucchese porta in bella vista la sua firma, con una memorabile doppietta. Anche se la festa vera si consuma una settimana più tardi, con quel 3-3 del Porta Elisa che da quelle parti nessuno, ma proprio nessuno, ha mai dimenticato. 3-1 Lucchese nei tempi regolamentari, il rossonero Carruezzo che calcia contro il palo il rigore che chiuderebbe i conti, quindi la squadra di Rossi che trova la forza di segnare due volte in otto uomini contro nove. Epico.

Epico come l'anno successivo. Serie B, un gradino più su, di nuovo a un soffio dalla gloria. La Triestina di Alessandro Parisi, del centravanti Dino Fava e di Eder Baù sogna di nuovo in grande. Chiude addirittura il girone d'andata in vetta, conquistando il titolo d'inverno. Alla fine arriva quinta, in un'epoca in cui i playoff promozione sono un'idea non ancora realizzata. Applausi, di nuovo. Anche per Baù, che viene acquistato a titolo definitivo e a un certo punto finisce sotto lo sguardo vigile dell'Under 21 azzurra: un infortunio fa saltare tutto e la porta si chiude. Poco male.

“Trieste è stata la piazza più importante della mia carriera – ci dice ancora Eder – Quando sono arrivato dal Milan era in C1, non giocava in B non so da quanto tempo. Segnare due goal in finale a 19 anni è stata una grande emozione. Sono rimasto lì altri cinque anni, è diventata casa mia. Quando ci vado si ricordano ancora di me”.

È l'ultima, vera epoca d'oro della Triestina. I giuliani sognano in grande anche l'anno successivo, l'anomala stagione delle 24 squadre, ma crollano nel finale. E così la Serie A rimane una chimera. Per la squadra, ma anche per Baù. Pure se gli interessamenti nei suoi confronti, a dire il vero, non mancano.

“Ho avuto per due volte la possibilità di andare in A: mi voleva il Cagliari di Zola, Suazo ed Esposito, ma potevo anche raggiungere Ezio Rossi a Treviso. Non è stata nemmeno colpa mia, io avrei voluto andarci, ma avevo fatto molto bene a Trieste e così la società ha sparato alto per il mio cartellino pur di non lasciarmi andare”.

Alla fine Baù la lascia, la Triestina. Non è una separazione serenissima: “Fui obbligato alla rescissione dal dg Gianluca Sottovia e dal ds Ivone De Franceschi a causa della pubalgia – ha raccontato qualche anno fa al 'Corriere del Veneto' – e quell’ombra ancora oggi mi fa stare male, perché avrei meritato un altro finale”. Nel gennaio del 2006 si trasferisce a Pescara. Ironia della sorte, qualche mese prima coi giuliani ha condannato alla retrocessione in C attraverso i playout il Vicenza, comunque riammesso qualche settimana più tardi. Quindi va allo Spezia, ma in un altro spareggio, quello che nel 2007 spedisce in terza serie il Verona, non c'è: a gennaio se n'è andato per la prima volta nel profondo Sud, a Crotone. Ed è finita male, perché i calabresi sono precipitati a loro volta in C.

Infine, il ritorno in Veneto. Non a Vicenza, perché evidentemente è destino che debba andare così, ma a Padova. Nella città del Santo, Eder vive l'ultimo guizzo di una carriera ad alti livelli. Ritrova l'amico Rabito, in coppia vincono i playoff e riportano i biancoscudati in Serie B dopo più di un decennio. Dodici mesi più tardi, il Padova rimane in categoria dopo aver superato nei playout la Triestina. Ma Eder, il doppio ex, non c'è: è alla Pro Patria, ovvero l'avversario battuto nella finale playoff dell'anno precedente.

Poi il Trento, l'Abano, la chiusura nel Vicentino. Anche a Stoccareddo, la frazione dei Baù. L'ultima squadra è stata lo Zanè, dilettanti locali. Oggi ha lasciato da parte il pallone per seguire i due figli, Achille e Amedeo, pure loro calciatori provetti. E quando gli si chiede del Milan, di quell'amichevole contro la Dinamo Kiev, del possibile rimpianto di essere arrivato a tanto così dalla gloria, la risposta trasuda serenità.

“Ho giocato un po' di amichevoli con la prima squadra. Per due-tre volte sono andato in panchina in coppa, ai tempi si andava via in 18. Sono state esperienze molto belle. Stare a contatto con quei compagni era bellissimo”.
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