Alain SutterGetty Images

Alain Sutter, l'anticonformista: l'idolo di Nagelsmann che si è ritirato per una buca

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La rinascita del calcio svizzero agli inizi degli anni ’90, dopo decenni di buio, aveva tre volti in particolare: quello del totem Chapuisat, attaccante diventato leggenda del Borussia Dortmund; quello del geometra Ciriaco Sforza, passato per l’Inter e diventato un’icona in Germania del Kaiserslautern; e poi, quello di Alain Sutter, che tra i tre era probabilmente il più talentuoso, ma viene ricordato più per ciò che ha fatto fuori dal campo piuttosto che dentro al campo, dove è stato una specie di “what if”. Seppur con tanta, tantissima qualità nei piedi.

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Oggi che ha 55 anni, Sutter non è pienamente riconosciuto come uno degli artefici del risorgimento elvetico. O meglio, non è apprezzato come meriterebbe. Anzi, in patria la sua reputazione è quanto più lontano ci sia dallo status di leggenda. Status nel quale il diretto interessato, comunque, non si riconoscerebbe per niente. Schivo, anticonformista. Un idealista del pallone. Anzi, nel pallone. Che poi, a giocare a calcio ci è finito in quanto più bravo degli altri, ma fosse stato per lui avrebbe fatto il parrucchiere, perché lo faceva sentire meglio. Ha vagato tra Grasshoppers e Young Boys, la squadra della sua città (Berna), prima di tornare nelle ‘Cavallette’ di Zurigo e trovare la sua dimensione grazie ad Ottmar Hitzfeld.

Libertà. In campo e anche fuori. Libertà di pensiero e di azione, di esprimersi come meglio credesse. Quella che aveva stregato tutta la Svizzera. Nel giro della nazionale sin da diciassettenne, il suo paese vedeva in lui la speranza di un futuro calcistico migliore. Quel futuro lo aveva trovato con Roy Hodgson, che nel 1993 l’aveva portata fino al terzo posto nel ranking FIFA. Sutter era un perno di quella squadra, che poi centrò anche la qualificazione al Mondiale di USA 1994, mettendosi alle spalle Portogallo e Scozia, dietro soltanto all’Italia. La fine di un incubo: l’ultima partecipazione risaliva al 1966.

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Negli Stati Uniti, al Mondiale, Sutter aveva fatto strabuzzare gli occhi agli spettatori con le sue giocate sulla fascia sinistra del campo. Aveva segnato anche un goal contro la Romania nella fase a gironi, in quella che lui definisce ancora come la sua miglior partita in nazionale — insieme a quella contro gli USA, nello stesso girone. La Svizzera era andata agli ottavi, poi travolta da una Spagna nettamente superiore per 3-0. Sutter quella partita l'ha guardata dalla panchina per un problema alla caviglia. Forse la sua presenza non avrebbe cambiato le cose.

In casa Bayern Monaco, intanto, si erano convinti che quel talento, già conosciuto anche da avversario (nel 1993/94 giocava al Norimberga) avesse i requisiti giusti per far parte della squadra allenata da Giovani Trapattoni. Dal punto di vista tecnico, sicuramente sì. Meno per altri. Mentre i giocatori bavaresi finivano sulle copertine delle riviste nel periodo in cui il nomignolo affibbiato alla squadra era FC Hollywood, Sutter si distingueva per non essere un tipo da riflettori. Anzi.

Lo svizzero è sempre stato un tipo molto tranquillo, che dava molta importanza alla salute e mangiava poca carne. Cosa che peraltro faceva impazzire (e non in senso buono) Uli Hoeneß, president del Bayern la cui fortuna economica della famiglia è costruita su un’azienda che, per l’appunto, produce carne. Una volta Uli aveva dichiarato che ”un giocatore che non mangia carne non può scendere in campo”.

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Alain era molto poco bavarese. Anche per il fatto che fosse astemio. O meglio, più che astemio: contrario all’alcol. In ogni sua forma. In contrasto con quella che era la politica di un club sponsorizzato storicamente da una delle principali case di produzione della birra. Destò clamore quanto successe all’Oktoberfest: Sutter non solo non toccò la birra, ma non volle nemmeno fare la foto di rito col boccale in mano coi compagni.

In campo però il suo talento e i suoi capelli lunghi e biondi erano una calamita per gli occhi. Attiravano l’attenzione. Tanto da essere stato l’idolo di Julian Nageslmann, che quando Sutter giocava al Bayern aveva 7 anni, ma era rimasto folgorato dal suo look stravagante.

“Un giorno stavamo andando allo stadio ed eravamo in autostrada” ha raccontato l’attuale tecnico del Bayern a ‘UEFA.com', “Nell'auto a fianco è passato Alain Sutter: avevo sei o sette anni, ho iniziato ad agitarmi per salutarlo e lui ha risposto; è stato un momento molto speciale”.

L’idillio col Bayern è finito presto, dopo 31 presenze, un goal e qualche assist. Nel 1995, a stagione in corso, il passaggio al Friburgo alla ricerca di rilancio. Nel frattempo, Sutter si era segnalato al mondo per un atto di protesta in una partita Svezia e Svizzera nel giugno dello stesso anno. Con le squadre disposte in campo, l’esterno elvetico aveva srotolato uno striscione recante la scritta “Stop it, Chirac”. Chirac era il presidente francese e il messaggio era un duro attacco ai test nucleari che la Francia stava conducendo a Mururoa, un’isola della Polinesia in mezzo al Pacifico. Fu visto come un affronto. Quel momento viene ricordato ancora oggi come l’attimo in cui la Svizzera ha perso la sua neutralità nel calcio. Non è stato l’unico atto di protesta e di ribellione nella vita di Sutter, che aveva combattuto anche campagne contro gli esperimenti sugli animali e contro il potere nel calcio.

Artur Jorge, allora CT, a un certo punto decise di cacciarlo dalla nazionale. Si vociferava che Sutter avesse una sua setta, che non avesse più senso di appartenenza. Ha giocato la sua ultima partita con la nazionale nell’aprile 1996, a 28 anni. Poi, nel 1997, la decisione di chiudere con il calcio europeo e volare negli Stati Uniti.

“Gli USA erano perfetti. Nessuno mi conosceva. Potevo semplicemente fare come volevo. Dovevo andare per la mia strada”, ha ricordato a ‘Zwölf’.

Si è accasato ai Dallas Burn. Era il giocatore più pagato di tutto il calcio americano, probabilmente anche il più forte: “vinceva le partite da solo”, ricordano i compagni.

Tre anni dopo il mondiale negli USA, il ritorno oltre l’Atlantico. Una nuova esperienza, in un paese che per lui rappresentava quasi un sogno.

“Con due amici in Svizzera ci siamo promessi che quando avremmo terminato le nostre carriere saremmo andati sulla Route 66”, aveva raccontato al ‘Tampa Bay Times’.

Non è un caso che, per l’appunto, ‘Super Sutter’ giocasse con la maglia numero 66. A volte anche con una bandana in testa. Arrivato in MLS, voleva fare un contratto di 10 anni con la lega per giocare con tutte le franchigie. In realtà la sua esperienza si è conclusa in anticipo. A 30 anni, nel 1998, durante un allenamento in pre-stagione nel centro della High School che lo ospitava ha messo il piede in una buca troppo profonda mentre faceva jogging e si è infortunato. Non è più riuscito a tornare in campo.

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"Ho avuto una decisione difficile da prendere in quel momento. C’erano due opzioni: o continuare a giocare, rispettare il mio contratto di quattro anni con Dallas Burn e farmi realizzare un'articolazione dell'anca artificiale all'età di 40 anni, oppure fermarmi e guarire completamente. Ho scelto la seconda. Avevo ancora tanti anni della mia vita davanti a me che avrei voluto godermi. Volevo anche avere dei bambini ed essere in grado di uscire e giocare con loro senza dolore. Oggi sono contento di aver fatto quella scelta”.

Nel post carriera Sutter ha lavorato in televisione e come collaboratore tecnico del Winterthur e non solo. Oggi è il DS del San Gallo. È tornato in Svizzera, dove non è mai stato particolarmente amato. Forse per lo spreco di talento, forse per i suoi comportamenti poco neutrali, per il suo essere un idealista. Forse per non aver mantenuto le promesse. Di certo, da calciatore è stato sé stesso fino in fondo. E a lui va benissimo così.

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