Quando al cinema e nelle serie tv una sceneggiatura si impantana, si usa la carta Steve Wozniak. Chi? Steve Jobs. Ok, lui, sì. E il primo? Il co-fondatore della Apple, fondamentale, ma conosciuto da una ristretta cerchia, in confronto alla fama oltre ogni luna del vecchio re, carismatico, primo ed ultimo ad apparire. Wozniak, però, fu perno della rivoluzione come il vecchio amico. Di origini ucraine, classe '50, nato 24 anni prima di Serhij Rebrov, ucraino in tutto e per tutto. Il Wozniak della Dinamo Kiev. Al fianco del celeberrimo Jobs, Andriy Shevchenko.
Alle spalle del mito Shevchenko, sì, no, forse. Inferiore Rebrov? Leggermente, a livello di numeri e carriera. Ma leggendario come il compagno di Nazionale e di club. Più giovane, più faccia d'angelo e killer d'area, però, Sheva era considerato da tutti il mito che avrebbe reso di nuovo grande l'Ucraina in Europa e nel mondo. Ora sola, senza URSS. Un solo posto disponibile, nella storia. Non nel cuore di chi l'ha conosciuto negli anni '90, idolatrandolo più del collega, come fu per Wozniak con Jobs, in quell'altro mondo, così diverso.
Rebrov e Shevchenko, uniti nel male, dato agli avversari, uniti nel bene, della propria squadra. Una Dinamo Kiev mai più così macchina mortale. In panchina del resto c'era uno come Valerij Lobanovs'kyj, colonnello in campo e fuori, militare al servizio dell'Armata Rossa, rigido nel plasmare i due attaccanti nel freddo dell'ex URSS. Guida la squadra a più riprese, precisamente tre, ma l'ultima è quella più soddisfacente, per aver creato il mito dello Zar di ghiaccio, divenuto fuoriclasse eterno al Milan. Altra storia.
Sì, perché Shevchenko già si vede altrove, mentre Rebrov, quasi fosse un film sulla guerra fredda, è legato alla sua terra, all'essere imperatore a Kiev. Shakhtar chi? Donetsk non è ancora al top e l'unico 'aiuto' dato al calcio ucraino fino ad allora risulta essere quello di aver cresciuto Rebrov, prelevato dalla Dinamo a inizio anni '90 dopo due anni in nero-arancio. Non decolla, inizialmente, la sua stella. Solamente alla quinta stagione raggiungerà la doppia cifra.
E' il 1996/1997, poco tempo prima dell'arrivo di Lobanos'kyj. Rebrov e Shevchenko si alternano nell'ottenere la fatidica quota dieci, fino a quando il generalissimo imminente colonnello arriva per torchiarli. Per il loro bene, che li porterà a mettere insieme un piccolo numero di goal nel 1997/1998. Una quisquilia quasi indifferente, che non tocca l'animo di nessuno. Come potrebbero del resto 73 goal in due in un'annata far sobbalzare gli animi? A parte le battute, diciamo che li fa esplodere e collassare.
MTIRebrov è più vecchio di Shevchenko di due anni, sono quasi coetanei. Ma Sheva appare come quello pronto a decollare, più puro. Serhij ha 24 anni, eppure non può fare il grande passo. La Dinamo Kiev non si può permettere di cedere entrambi e il Milan si fa avanti per il primo, con un assegno berlusconiano da 25 milioni di dollari. A tale cifra, a posteriori, un affare irripetibile.
Viene da 37 goal e la semifinale di Champions, viene dagli abbracci con Shevchenko e dall'etichetta di campione su cui tutti hanno messo gli occhi, ma che nessuno può permettersi. Uno è andato, Jobs. Ma Wozniak deve sacrificarsi per la madre patria Kiev e Ucraina. A proposito, la Nazionale.
Forse qua, sta la vera differenza, che porterà le strade dei due a separarsi ed essere diverse. 48 goal in 111 gare per Sheva, quasi uno ogni due gare. 15 in 75 per l'amico, ad una media inferiore. Il nome gira, ma si impantana, restando a Kiev per due stagioni.
La promessa di partire non appena la situazione si sia sistemata però esiste e nel 2000, dopo altri 52 goal in due annate, Rebrov lascia il freddo ucraino per un gelo diverso, meno opprimente. Per Londra. Niente Arsenal, number one. Va al Tottenham, alternativa allora, diciamocelo, di poco valore. Soprattutto rispetto al Milan.
Ha 26 anni, il tarlo di essere migliore dell'amico Shevchenko, nonostante sia felice per lui. Non ci riuscirà, non per uno scherzo del destino, non per dati o forma fisica mancanti o inferiori. Perché i contesti sono diversi, la squadra dietro, rispetto al Milan, all'opposto. Si sbatte, crea, segna, ma i vecchi numeri non torneranno più. In cinque anni, quindici reti tra Tottenham, Fenerbahce e West Ham. Se non è un disastro, poco ci manca, soprattutto se rapportato a Sheva.
Perché lo Zar, volente o nolente, dev'essere il termine di paragone per Rebrov. Del resto formavano una coppia fenomenale ed erano quasi coetanei. Seppur con differenze fisiche (173 cm di altezza) e tecniche che nel loro piccolo hanno cambiato la vita di entrambi. Sheva non era solo un goleador da mille e una notte. Idolo degli uomini e dei ragazzi. Era il sorriso più amato delle ragazzine e il sogno proibito delle donne.
Rebrov era l'altro. Quell'altro che dovette tornare alla Dinamo Kiev per ritrovare confidenza, seria, con il goal. Togliendosi ciò che Shevchenko, per ovvi motivi di meno gare giocate, non riuscirà ad ottenere: l'essere il maggior cannoniere in Europa nella storia del club ucraino. Il tempo però passa e i giorni di gloria sono ormai polvere nel vento: gli ultimi cinque anni di carriera tra lo stesso Kiev, il Kazan e l'altro Kiev, l'Arsenal, porteranno ad una manciata di reti. Tenendo però stretta a sé, occhi fissi sull'obiettivo e petto in fuori, la consapevolezza di poter andare oltre l'amico Sheva, dall'altra parte.
Diventa allenatore, Rebrov. Neanche a dirlo, alla Dinamo Kiev. Parte nelle giovanili, si fa strada come vice, raggiunge la prima squadra da allenatore capo dopo cinque anni (con il ruolo di secondo della Nazionale ucraina nel mezzo). Come sempre, ha dovuto lottare, all'ombra di Shevchenko. Scelto subito come selezionatore della sua rappresentativa, alla prima esperienza da tecnico. Essere un simbolo predestinato aiuta, ma non completamente.
Perché Rebrov mostra ancora di che pasta è fatto, vincendo cinque trofei, prima di un anno di stallo. Riparte da zero, con un sorriso che da calciatore si era visto poche volte. Riparte dall'Al-Ahli senza fortuna e torna dove più si trova a suo agio, con il freddo nelle ossa, quasi nullo per lui, dall'Ungheria, dal Ferencvaros. Mettendo le mani avanti con una semplice frase, immaginaria: io sono Rebrov, e non devo stare dietro nessuno, il tempo dei confronti è finito. Ma sono gli altri a farli. E da tecnico, è un top.
Due campionati vinti in terra magiara e qualificazione ai gironi di Champions League. Qualcosa che non accadeva dal 1995/1996. Ovvero, guarda caso, la sua ultima annata da calciatore senza la doppia cifra. Oggi allena l'Al-Ain con cui ha vinto un altro campionato oltre alla Coppa di Lega.
Jobs sarà stato Jobs, ma Wozniak, dietro le quinte ha attirato a sé le orde di quei fan più appassionati, più tecnici, maggiormente abituati alle botte, metaforiche e fisiche. Sì, intendevamo Rebrov. Stesso piano.