Cento: cifra tonda. Il campionato di Serie A 2001/2002 prima ancora di iniziare ha già un qualcosa di speciale. E’ infatti la centesima edizione della massima serie del campionato di calcio italiano e la cosa si traduce in un compleanno da festeggiare nel migliore dei modi.
I club protagonisti del torneo, dal canto loro, ce la mettono tutta per rendere l’evento speciale e lo fanno sfidandosi a colpi di grandi operazioni di mercato nel corso dell’estate.
E’ un periodo nel quale la Serie A è ancora il miglior campionato del mondo, ovvero quello che attira i giocatori più forti in assoluto, e basta dare uno sguardo alle rose dell’epoca per capire quanta qualità fosse sparsa su tutti i terreni di gioco d’Italia.
La Roma campione in carica acquista uno dei talenti più desiderati in assoluto, ovvero Antonio Cassano, l’Inter affida la panchina ad Hector Cuper e si rafforza con Toldo, Materazzi, Conceiçao e soprattutto attende il rientro del Fenomeno Ronaldo. Il Milan si regala Inzaghi, il calcio offensivo di Terim e la magia di Rui Costa e Pirlo, mentre la Juventus riaccoglie Lippi, perde sì Zidane, ma piazza dei colpi da urlo che portano i nomi di Buffon, Thuram, Nedved e Salas, e la Lazio spende quasi 90 miliardi per assicurarsi Gaizka Mendieta.
La Serie A 2001/2002 è insomma più di un semplice torneo, è una parata di stelle, e il grande equilibrio che si viene a creare sfocia in uno dei finali di campionato più belli di sempre.
Quando il 5 maggio 2002 le diciotto squadre scendono in campo per affrontarsi negli ultimi novanta minuti della stagione, la classifica parla di situazioni ancora da definire sia nella parte destra che in quella sinistra.
Le attenzioni di tutti sono però rivolte alla lotta Scudetto e il motivo è molto semplice: a contendersi il titolo di campione d’Italia sono rimaste addirittura tre squadre.
L’Inter, che non vince un campionato dal 1989, si presenta all’ultima giornata del torneo forte di tutti i favori del pronostico grazie ai 69 punti messi in cascina. Ad inseguirla ci sono la Juventus che è staccata di una sola lunghezza e la Roma che invece si è spinta fino a quota 67.
Gli ingredienti per un qualcosa di storico ci sono tutti e i giorni che anticipano gli ultimi calci d’inizio sono ovviamente roventi. I tifosi della Lazio invitano, senza troppi giri di parole, la loro squadra a farsi da parte contro l’Inter all’Olimpico (“Nè Roma, nè Juve: Inter campione”, così reciterà uno degli striscioni che accoglierà gli uomini di Zaccheroni in campo”), quelli di Inter e Roma temono che l’Udinese, che si è salvata con un turno di anticipo, possa non dannarsi più di tanto contro la Juve, e in tanti non ripongono troppe speranze nemmeno sul Torino, che sfiderà la Roma essendo già praticamente certo della qualificazione all’Intertoto.
La lunga scia di veleni e polemiche che si viene a creare, porta Marcello Lippi a parlare apertamente (soprattutto in ottica Lazio-Inter) di “Clima vomitevole”, mentre i presidenti della FIGC e della Lega, rispettivamente Carraro e Galliani, si affrettano a garantire un finale di campionato “Straregolare”.
Come sappiamo, a seconda da dove la si guardi, la domenica del 5 maggio 2002 ha lasciato in eredità emozioni tali da averla resa tanto spettacolare, quanto spietatamente drammatica.
Paradossalmente quando si ripensa a quella giornata, le immagini che tornano alla mente riguardano quasi tutte l’Inter, ovvero la grande sconfitta che nel giro di novanta minuti passerà dal primo al terzo posto.
Gli errori di Gresko, i goal di Poborsky, la smorfia di dolore sul viso di Materazzi, il pianto a dirotto di Ronaldo, l’espressione sconcertata di Massimo Moratti… e la lista è ancora lunga.
Più che sul clamoroso sorpasso della Juventus al fotofinish, ci si è concentrati sul crollo di una squadra che ha potuto contare su un’Olimpico tutto tinto di nerazzurro, che per due volte si è portata in vantaggio e che sembrava chiamata a sbrigare solo un’ultima formalità. Il tutto prima di perdere 4-2.
Molto meno nitide nei ricordi della stragrande maggioranza dei tifosi, sono le immagini di ciò che invece è accaduto a molti chilometri di distanza: a Udine.
Sul campo del Friuli si è festeggiato la conquista dello Scudetto, ma incredibilmente è come se Udinese-Juventus fosse stata trascinata via dalla forza degli eventi.
A ‘depotenziarla’ è stato probabilmente anche un fattore non da poco: la partita di fatto è stata senza storia.
L’Inter ha appena battuto il calcio d’inizio della sua gara all’Olimpico contro la Lazio quando, al terzo tocco in assoluto dell’intero match, sul tabellone luminoso appare la notizia del goal di Trezeguet che ha portato avanti la Juve.
I bianconeri poi chiuderanno la pratica già all’11’ con il raddoppio in contropiede di Alessandro Del Piero e di lì in poi si limitano a gestire la situazione e a porgere un’orecchio alla radio che racconta degli incredibili fatti di Lazio-Inter.
“Noi i nostri problemi li abbiamo risolti in dieci minuti - racconterà tempo dopo Marcello Lippi - Poi sono iniziate ad arrivare le notizie da Roma”.
I riflettori su Udinese-Juventus si sono spenti con la stessa velocità con la quale i bianconeri hanno trovato i due goal che sono valsi lo Scudetto, ma in un certo senso a riaccenderli molti anni dopo, sarà un ex calciatore che quella partita doveva giocarla, ma non l’ha giocata: Mauricio Pineda.
Terzino sinistro con all’attivo anche undici presenze con la Nazionale argentina, in Serie A ci ha giocato per sei anni senza lasciare grandi tracce dietro di sé. Un buon giocatore che ha vestito le maglie di Udinese, Napoli, ancora Udinese e Cagliari, e che a differenza di molti suoi colleghi non ha conservato del calcio nostrano il migliore dei ricordi.
GettyDi lui si sono praticamente perse le tracce nel 2003, ovvero quando ha fatto ritorno nel suo Paese per ripartire dal Lanús, salvo poi vederlo tornare alla ribalta quando ha dipinto un quadro desolante della Serie A di quegli anni.
Quello raccontato da Pineda è un campionato che dietro le sue stelle nasconde tutto ciò che con il calcio nulla dovrebbe avere a che fare. Un vero e proprio sistema atto a favorire pochi e a sfavorire la regolarità del torneo.
“Sono stato in Italia sei anni, in quel periodo la Juve vinse tutto - ha raccontato a ‘TNT’ - In Argentina ero abituato agli incentivi, ma lì ti davano i soldi per spingerti a vincere, mentre in Italia te li davano per perdere”.
Il Pineda che si avvicina al 5 maggio 2002 è un giocatore che ha vissuto una stagione dai due volti. Vede pochissimo il campo quando a dirigere l’Udinese c’è Roy Hodgson, ma per lui le cose cambiano con l’avvento in panchina di Gian Piero Ventura.
Il tecnico italiano gli offre una chance a sinistra e lui, che è reduce da annate non propriamente brillanti con Maiorca e Napoli, ripaga la fiducia con prestazioni convincenti.
“Ho vissuto l’arrivo di Ventura come una sorta di regalo”.
Si prende una maglia da titolare a febbraio e non la molla più, tanto che prima del 5 maggio gioca nove partite su dieci, saltandone solo una per squalifica.
Alla vigilia di Udinese-Juventus sono in pochi quindi a dubitare su una sua presenza dal 1’ nel 3-4-3 friulano, in realtà però il suo nome non apparirà nemmeno nella lista dei convocati per la gara.
La motivazione ufficiale è ‘infortunio’, ma dietro a quella defezione c’è molto altro. E’ infatti stato lo stesso Pineda a decidere di non scendere in campo e il perché lo svelerà ancora nel 2020, a più di diciotto anni di distanza dalla partita che regalò alla Juve il suo ventiseiesimo Scudetto.
“L’Udinese si era salvata con un turno d’anticipo e l’ultima partita era contro la Juve che doveva vincere a tutti i costi - ricorderà a ‘La Nacion’ - L’Inter di Cuper era prima, ma perse a Roma contro la Lazio. La Juventus battè l’Udinese e vinse il campionato. Io avevo sempre giocato da titolare, ma quella volta non scesi in campo per un motivo… non volevo prendere in giro me stesso. Alcuni giorni prima spiegai che non avrei giocato, dissi che mi tirava un muscolo. Sono sempre stato molto chiaro sulla cosa”.
Un retroscena, o forse meglio dire un segreto, che Pineda ha tenuto per sé per quasi due decenni, prima di raccontare una verità che poi secondo lui è stata avallata dai fatti di ‘Calciopoli’.
“Mi chiedono perché ne parli dopo venti anni, ma non capisco quale sia la sorpresa. Nessuno me lo ha mai chiesto prima e inoltre io sono sparito dall’ambiente del calcio. La Juventus, che è un gigante, è stata retrocessa tempo dopo. Luciano Moggi, che era l’amministratore delegato del club, era un Dio del calcio, ma poi è stato sanzionato e non ha più fatto il dirigente. Sono molte le persone che sono cadute. Se mi avessero chiesto di parlare prima di questa cosa, l’avrei fatto senza problemi. E’ venuto tutto alla luce. E’ tutto provato”.
Nel corso dei suoi sei anni vissuti in Italia, Pineda ha toccato con mano il bello ed il brutto del calcio di quei tempi. Ha sfiorato l’approdo al Milan (“Zaccheroni mi chiese quali fossero le mie intenzioni, ma io dissi che mai e poi mai sarei rimasto in Italia. Il Milan poi prese Guglielminpietro”), ha giocato contro alcuni dei più grandi fuoriclasse dell’epoca, ha vissuto l’ebbrezza di essere trafitto da Ronaldo su punizione (era tra i pali perché Turci era stato espulso e le sostituzioni erano finite), ma è stato anche coinvolto nello scandalo ‘Passaportopoli’
“Alla fine si scoprì che per farmi avere il passaporto più veloce misero delle firme false e non presentarono tutti i documenti come si doveva - ha spiegato a ‘CalcioNapoli24' – Alla fine la vicenda non mi toccò per niente perché tornai in Argentina e fui sanzionato semplicemente perché decisi di non difendermi legalmente. Avere il passaporto italiano non era nei miei programmi anche perché arrivai all’Udinese in prestito e per me doveva essere solo una tappa temporanea prima di tornare al Boca Juniors. Il documento mi sarebbe servito solo per trasferirmi definitivamente in Italia e non era certo quello che volevo”.
Udinese-Juventus sarebbe dovuta essere l’ultima partita di Pineda con la maglia del club friulano addosso, ma le cose sono ovviamente andate in maniera diversa. Giocherà ancora una stagione in Italia, al Cagliari, prima di tornare in Argentina e abbandonare definitivamente il mondo del calcio a soli ventinove anni.
Oggi vive a Santo Tomé, una cittadina argentina al confine con il Brasile. Il trambusto delle grandi città e gli anni vissuti nel folle mondo del calcio sono lontanissimi, tanto che non tocca un pallone da anni. Fa l’agricoltore e la terra gli dà le stesse soddisfazioni che gli davano i campi da gioco.
“Non so se ho perso l’amore per il calcio. Ho realizzato tutti i miei sogni: l’Huracán, il Boca, di cui ero tifoso, ha vissuto in Italia per sei anni, ho giocato in Nazionale ed ho preso parte ad un Mondiale e alle Olimpiadi. Appena ho comprato il mio appezzamento, ho posto la parola fine a tutto. Volevo imparare cose di un nuovo mondo che mi appassionava e così ho fatto. Ho imparato ad amare gli animali, ad alzarmi alle sette del mattino e ad andare a cavallo. Non ho patito il ritiro. Qui sono molto felice”.
Quella del 5 maggio 2002 è una data entrata di diritto nella storia del calcio italiano. Una domenica che ha lasciato dietro di sé tante versioni, compresa quella di chi, per sua scelta, decise di non scendere in campo quel giorno.