La stanza di Berlusconi e il Derby vinto contro l'Inter: il Clarence Seedorf allenatore

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“Seedorf, cioè, era una roba… Che rompiballe”.

Impossibile stimare in numeri precisi la quantità di video caricati su YouTube dal 2005 a oggi. O forse semplicemente impensabile. Buona parte di questi, però, riguarda i numerosi litigi tra Clarence Seedorf e l’allenatore di turno. Diamo un po’ di contesto: la clip (data la lunghezza ridotta) più visualizzata, sul tema, è quella relativa allo scontro verbale tra l’olandese e Carlo Ancelotti al Picchi di Livorno in un match di fine settembre 2006 tra la formazione amaranto e il Milan. Una polemicuccia mica da poco.

Finale di gara, clima teso. “Gioca a due tocchi”, esordisce l’allenatore. “È solo perché non ho più cambi, se no vedevi dove andavi”, aggiunge. Seedorf non lo lascia neanche finire: “Non ti lamentare sempre, aiutateci, porca…”, avete capito. Il tutto ripreso dalle telecamere.

Il “Che rompiballe”, scritta in incipit, però, è un’espressione proferita a Sky Calcio Club nel 2021 da Massimiliano Allegri, uno che di Seedorf ha letto passato, contemporaneità e futuro in rossonero. “Non c’è assolutamente guerra tra me e Seedorf”: e anche qui, serve contesto. È il 2012 e il Milan si gioca lo Scudetto con la Juventus di Antonio Conte. Al termine di un Milan-Bologna terminato 1-1 saltano i nervi: l’allenatore sostituisce l’olandese e quest’ultimo si sfoga. Perché questi esempi (ce ne sarebbe un terzo riguardante Fabio Capello al Real Madrid, ma sorvoliamo) in apertura di articolo? Perché no: Clarence Seedorf non è stato caratterialmente un personaggio qualunque, persino nel rapporto con il suo futuro in panchina.

Mentre vi scriviamo l’ex centrocampista nato in Suriname non allena da tre anni, ormai. L’ultima sua esperienza risale al 2019, sulla panchina del Camerun, con Patrick Kluivert come vice: Euro 2000 feels. Raggiunge la qualificazione alla Coppa d’Africa a marzo, quindi affronta la competizione con un background statistico mica entusiasmante. Vince una sola gara contro Guinea-Bissau grazie alle reti di Banana e Bahoken, tutte in tre minuti, ma pareggia contro Ghana e Benin. Agli ottavi, poi, esce contro la Nigeria, in una gara che i Leoni avevano saputo ribaltare. Sempre in tre minuti. Eliminato, il Camerun lo solleva dall’incarico: “I risultati ottenuti sono stati modesti”, commenterà il Ministro dello Sport camerunese, Narcisse Mouelle Kombi. Pazienza.

Dietro al banchetto di Amazon Prime Video, però, Seedorf sfoggia la solita grande calma mista a sapienza nell’analizzare le gare: lo faceva da centrocampista, da “professore”. Chi sa leggere il calcio non ha problemi a commentarlo tecnicamente: in panchina, però, non ci è più tornato.

C’è chi parla di sfortuna, chi, invece, di occasioni arrivate troppo presto. In tutto questo, tra l’altro e filosofeggiando, è possibile notare una delle tante degenerazioni del “Guardiolismo”, come anche uno dei suoi effetti: l’ex giocatore “simbolo” catapultato in panchina.

Anche perché di Seedorf al Milan se ne parla diversi mesi prima dell’esonero di Massimiliano Allegri. Alla vigilia della sfida contro l’Atalanta, la sua centesima in Serie A, l’attuale allenatore della Juventus annuncia l’addio a fine stagione.

“È una decisione che avevo preso quest’estate. La dirigenza sceglierà sicuramente un degno mio sostituto in grado di allenare il Milan, poi come verrà giudicato in base ai risultati”.

Destino segnato: una settimana dopo i rossoneri perdono al Mapei Stadium contro il Sassuolo e Allegri viene esonerato.

“Seedorf è un giocatore, ‘giocatore’ perché sta ancora giocando, molto intelligente che ha le qualità per poter fare l’allenatore: però sono due mestieri diversi”.

Nell’ultima frase, in realtà, c’è un pizzico di inesattezza, ma Allegri non può saperlo. “Perché sta ancora giocando”. Non per molto. A Rio de Janeiro è estate, il Botafogo sta completando la preparazione al nuovo campionato, con Seedorf a centrocampo. È stato appena nominato miglior calciatore del Campeonato Carioca, ma viene riconfermato per la stagione successiva: o almeno, per quattordici giorni.

All’indomani della sconfitta emiliana del Milan squilla il telefono: è Galliani, che lo porta direttamente a Milanello. L’olandese annuncia il ritiro: due giorni dopo è già sulla panchina rossonera. Pronto o meno, era lì.

E non solo: ritornato a Milano, ma questa volta non da giocatore, mostra ancora una volta il carattere che lo ha contraddistinto, ancor prima di guidare il primo allenamento.

“E ogni allenatore che negli anni ha occupato il ruolo di guida tecnica del Milan e diventato temporaneamente, ma con immensa emozione, proprietario di quella stanza. La 5. Tutti tranne Clarence Seedorf, che nel 2014, nei suoi cinque mesi scarsi in panchina, scelse la 42, la camera più grande. Quella del presidente Berlusconi”.

(Peppe Di Stefano, “Milanello, la casa del diavolo”, Cairo, 2022)

Nella scelta della stanza del presidente, e non di quella di ogni allenatore, c’è un pizzico di irriverenza, sì, ma anche di sistematica rottura con un presente che mal si addiceva alla gloriosa storia del club: un segnale legato al passato. A quando Gennaro Gattuso, come racconta Peppe Di Stefano in “Milanello, la casa del diavolo”, decide di occupare la stanza di Berlusconi e per scaramanzia di dividerla con Cristian Brocchi e Christian Abbiati, vincendo due Champions League.

A Seedorf non è andata nella stessa maniera: in Champions allena, sì, ma esce agli ottavi di finale contro l’Atletico Madrid, poi finalista. La sua esperienza in rossonero dura cinque mesi, giusto il tempo di vincere un derby contro l’Inter.

Uno di quelli che non vale certo i primi posti in classifica, ma pur sempre la gara che ferma il tempo, a Milano, aprendo le porte all’eterno: gioca “Ricky”, Kakà, suo amico, che centra una traversa nel primo tempo, in porta c’è Abbiati. Nomi che conosce, insomma: suoi ex compagni di squadra nel Milan dei campioni. La risolve Nigel De Jong, con un colpo di testa nella ripresa su assist di Mario Balotelli.

I rossoneri chiuderanno la stagione ottavi: lui lascerà la panchina a Pippo Inzaghi: due anni più tardi volerà in Cina, allo Shenzhen, nel 2018 guiderà il Deportivo la Coruña, non riuscendo a evitare la retrocessione. La mente, però, più di una volta sarà tornata a Livorno, sicuramente: a quando Ancelotti gli chiedeva un gioco a due tocchi. Si sarà rivisto in lui, forse: poi avrà imbronciato lo sguardo, incrociando le braccia, e avrà sorriso. Un giorno tornerà a caricare i suoi all’interno dell’area tecnica: su questo, visto il carattere, possiamo giurarci.

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