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Da Muñeco a Napoleón: Marcelo Gallardo, una vita in diagonale

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Marcelo Gallardo ha il bianco e il rosso tatuati sulla pelle, la banda diagonale che gli attraversa il cuore, un animo millonario. Nella Baires del River c'è cresciuto, era Muñeco e poi è diventato Napoleón, si è issato nell'Olimpo dei più grandi e vincenti di sempre.

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Ha vinto tutto, Gallardo. Prima da calciatore, poi da allenatore. Campionati, coppe, un paio di Libertadores. Genio in campo, re in panchina. Ha regalato al River trofei e glorie. Ci ha giocato in tre parentesi diverse e poi, dopo un anno di apprendistato in Uruguay, è tornato per allenarlo. Se in campo era bravo, col suo bel 10 sulle spalle e un piede destro dolce come un confetto, in panchina è stato il migliore di tutti, almeno in Sudamerica. David Trezeguet, che assieme a lui ha condiviso lo spogliatoio del Monaco una vita fa, è arrivato a consigliarlo alla Juventus: “Non avrebbe problemi ad allenare un club del genere”.

Per capire chi sia Gallardo, e che razza di scorza abbia al posto della pelle, bisogna schiacciare il tasto rewind. E tornare indietro, molto indietro. Nelle giovanili, intanto, dove viene allenato da Alejandro Sabella e - parole di Pachorra, l'ex ct dell'Argentina scomparso nel 2020 - gioca “come se avesse 30 anni”. E poi l'11 dicembre del 1994, giorno in cui va in scena il Superclásico alla Bombonera. Il River conduce per 2-0 già nel primo tempo, reti del Principe Francescoli dal dischetto e poi di Ariel Ortega, ed è a un passo dalla conquista dell'Apertura. Nel secondo tempo si vede assegnare un secondo rigore. A calciarlo va lui, Gallardo. Che non ha nemmeno 19 anni, ma si prende una responsabilità da far tremare i polsi. E va a segno, naturalmente.

“Quando sono andato a calciare quel rigore non ero cosciente – dirà anni più tardi a 'TyC Sports' – Avevo 18 anni, ma per me era naturale giocare nella prima squadra del River. Solo in seguito ho iniziato a sentire il peso della responsabilità”.

E dire che baby Marcelo non aveva un gran rapporto col pallone. Anzi, non aveva proprio un rapporto. Quand'è piccolino e vive a Merlo, nella provincia di Buenos Aires, il calcio proprio non gli piace. Non è nemmeno capace di giocare. Una volta il cugino lo porta con sé, ma è un disastro: “Presi un paio di pallonate in testa e dopo tre minuti mi tolsero dal campo. Mi vergognai”. Poi, lentamente, qualcosa cambia. A otto-nove anni, il fútbol inizia a entrargli nelle vene. Per non uscire mai più.

Salto in avanti. Una volta diventato professionista impara presto, Gallardo, che giocare a calcio non significa solo tirare un paio di pedate a un pallone. Qualche anno dopo il rigore della Bombonera, mentre sta giocando con la Nazionale argentina, di colpo viene fulminato da una rivelazione. 1995, Copa America, la squadra di Daniel Passarella sta affrontando la Bolivia. Di colpo, click: la luce si spegne e prevale l'insicurezza più totale.

“Ho iniziato ad avvertire il peso della responsabilità. Per la prima volta sentivo che ero cosciente di ciò che stavo vivendo. Non riuscivo nemmeno a muovere le gambe. Mi aveva preso il panico, ero paralizzato. Sono rimasto in campo per 45 minuti, poi sono uscito. In seguito sono tornato me stesso, ma ho iniziato a vivere in maniera emozionale una situazione rara, che per me fino a quel momento era sconosciuta”.

Una volta sbloccata la mente e le gambe, riecco Gallardo. Un 10 sopraffino, che diverte e si diverte. Ben presto diventa una bandiera del River Plate, nel 1996 vince la Libertadores grazie una doppietta di Hernan Crespo in finale contro l'America di Cali. A proposito di Libertadores, competizione che assaporerà pure in panchina, vincendola (nell'epico Superclásico del Bernabeu) e perdendola dolorosamente (2019, contro il Flamengo): ancor oggi detiene il poco invidiabile record di calciatore più espulso della competizione (sei volte).

E del resto è sempre stato questo, Gallardo: qualità e fuoco sacro. Toccategli tutto, ma non il suo River Plate. Nei Superclásicos col Boca, poi, sono sempre stati fuochi d'artificio. Uno degli episodi più famosi riguarda lui e il Pato Abbondanzieri, simbolo boquense, durante l'andata della leggendaria doppia sfida della Libertadores 2004: Gallardo litiga con Cascini, viene espulso (arieccolo) alla pari del centrocampista del Boca, ne nasce un parapiglia da corrida, Abbondanzieri lascia i pali per mettersi in mezzo e si becca un graffio in volto dall'avversario. Le immagini del sangue che scorre sulla sua guancia sinistra sono un must ancor oggi. Dirà il Pato: “Non ho più parlato con lui, ma pure lui non mi ha più cercato”.

Diabolico, Marcelito. E del resto lo hanno sempre chiamato Muñeco, ovvero bambola, pupazzo, ma di quelli un po' sghembi, storti, inquietanti. Storia vecchia, dei tempi in cui viene promosso coi grandi del River. I suoi compagni, per prenderlo in giro, gli dicono che assomiglia a Chucky, il protagonista de 'La bambola assassina', uscito proprio in quegli anni. “All'inizio si arrabbiava – ha raccontato l'ex portiere Javier Sodero – non è che gli piacesse molto quel soprannome”. Oggi ha cambiato, è diventato Napoleón, un uomo guida da seguire in guerra, anche se l'apodo gli è stato dato quando ancora era in campo dal radiocronista Atilio Costa Febre.

Gallardo RiverGetty Images

Il carattere fumantino, che fa da contrasto con quella calma apparente di oggi, non gli impedisce di essere notato dall'Europa. Nel 1999, dopo aver vinto tre campionati in due anni più la Libertadores del '96, lo chiama la Francia. O meglio, il Principato, “che conoscevo solo per la Formula 1”. Al Monaco raggiunge David Trezeguet e vince la Division 1 al primo colpo, venendo nominato dai colleghi miglior calciatore del torneo. Anche lui viene inserito nell'infinito elenco dei potenziali (potenziali, sì) eredi di Diego Armando Maradona. La rivista 'Onze' lo innalza al livello di Michel Platini e Zizou Zidane. Troppo. Decisamente.

L'altro lato della medaglia riguarda il suo sangue. Sudamericano, argentino. Caldo. Gallardo viene visto dai francesi come un provocatore. Come dice lui, “mi davano un calcio, mi rialzavo, aspettavo il mio avversario e gli facevo un tunnel”. Una volta, contro il Lione, ne nasce un parapiglia. Sonny Anderson pianta i tacchetti sulla coscia dell'argentino, viene espulso e si becca tre giornate. Jean-Michel Aulas, il presidente dell'OL, punta il dito contro Gallardo: “Per essere ascoltato devi simulare”.

Il bello è che Gallardo giura di non essersi mai sentito così, come in quegli anni del Principato, in tutta la propria vita di calciatore. Nemmeno a Buenos Aires. Nemmeno al River. E non solo perché assieme a Trezeguet riesce persino a far ballare la cumbia al Principe Alberto,"che però non era molto bravo". Ad anni di distanza ricorda che “avevamo uno squadrone, ci capivamo perfettamente gli uni con gli altri, tra di noi c'era una chimica particolare. Nella mia carriera mi è accaduto soltanto qui”. Però il Millo è il Millo. E quando le sirene del cuore tornano a cantare, Marcelo non sa dire di no. Nel 2004 torna in patria, ha appena 27 anni ed è un colpo da novanta. Graffia Abbondanzieri, vince ancora, trascina il River a un passo dalla finale di Libertadores. Incanta di nuovo. Tanto che il PSG, nel gennaio del 2007, lo riporta in Francia.

Una stagione e mezza a Parigi, tutto sommato positiva. Ma quello è un altro PSG, mica la potenza danarosa di oggi. E poi la MLS col D.C. United, teorico canto del cigno, un altro po' di River giusto per gradire, la chiusura a Montevideo col Nacional. Non banale, l'esperienza in Uruguay. Perché Gallardo fa in tempo a rompersi il tendine rotuleo nella partita d'esordio, torna, gioca e si fa espellere (ci risiamo) alla sua presenza finale in Libertadores contro il Fluminense. Nel 2011 vince il campionato, l'ultimo della carriera di calciatore. E poi, praticamente senza soluzione di continuità, passa in panchina.

“Il Nacional è stato un corso accelerato – ha detto Gallardo nel 2020 a 'El Pais', poco dopo essere stato premiato miglior tecnico del Sudamerica – Allenavo giocatori che erano stati miei compagni di squadra, un club che aveva l'esigenza di vincere sempre. Cose che ti temprano”.

Il resto è storia recente. Gallardo che vince, vince e ancora vince fino all'ottobre del 2022, quando annuncia la decisione di lasciare la panchina del River dopo nove anni scanditi dalla conquista di quattordici titoli. Gallardo che, unanimemente, per anni è stato considerato il più bravo tra i più bravi. Gallardo che viene accostato al Barcellona e anche alla Nazionale argentina, con cui ha giocato 43 volte e disputato un paio di Mondiali, sfiorando nel 1998 contro la Croazia una rete “che sarebbe stata una delle più belle nella storia del torneo” (confermiamo: incursione personale palla al piede da centrocampo, dribbling, destro a lato). Era ancora il Muñeco, quello. Oggi è Napoleón. E in guerra assieme a lui ci vogliono andare tutti. Pure il Milan.

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