Dopo la semifinale stravinta contro la Croazia, Lionel Messi ha detto alla stampa argentina: "La finalissima sarà la mia ultima partita in un Mondiale. Che bello chiudere così". Certo, sarà bello solo se la Selección la vincerà, la finale. Naturale. Altrimenti qualcuno - chissà - avrà di nuovo il coraggio di innalzare la bandiera della protesta e delle accuse verso il calciatore più forte del mondo e, forse, di tutti i tempi.
Follia? Non lo è. Può accadere anche questo. Ed in effetti è davvero accaduto, più e più volte, nel corso dei 17 anni di relazione tra Leo e l'Argentina. Un rapporto intenso, questo sì, a volte ai limiti dell'ossessione. Ma non sempre felice. E, molto spesso, particolarmente turbolento. Almeno fino alla notte (italiana) tra il 10 e l'11 luglio 2021. La notte del trionfo dell'Argentina in Copa América, contro il Brasile, nel tempio del Maracanã. La notte in cui tutto, in sostanza, ha improvvisamente iniziato ad assumere una nuova e inedita forma.
A pesare, prima di allora, era la stordente assenza di trofei. I dati nudi e crudi non potevano mentire: con la maglia dell'Argentina, Messi aveva collezionato la bellezza di zeru tituli. Aveva alzato due coppe, in realtà, ma non con la Selección maggiore: una era il Mondiale Under 20 del 2005, da capocannoniere e miglior calciatore della competizione, e l'altra erano le Olimpiadi di Pechino di tre anni più tardi. Stop. Per il resto, tante reti messe a segno e altrettante delusioni provate sulla pelle. Quattro le finali raggiunte, quattro le finali perse sul più bello: tre di Copa America, più il Mondiale di Rio. Dopo la quarta, il ko negli Stati Uniti del 2016 contro il Cile, il secondo di fila – e sempre ai calci di rigore – contro lo stesso avversario, con tanto di calcio di esecuzione dagli 11 metri fallita, Leo aveva scioccato il mondo intero:
“Lascio. Ci ho provato, ma fa male non poter diventare campione con la Selección. Sono quattro finali perse, tre di fila”.
Pochi mesi dopo, però, Messi era di nuovo lì. In campo, con la maglia bianca e celeste cucita sulla pelle. Perché certi amori bla bla bla, ma l'amore in realtà non si era mai davvero incrinato. Il 2 settembre di quell'anno, la Pulga giocava contro l'Uruguay per le Qualificazioni Mondiali. E naturalmente segnava la rete decisiva. Tutto ricominciava daccapo, come se non fosse mai successo nulla. “Non ero al meglio, ma volevo esserci dopo tutto quello che è accaduto – diceva dopo la partita, riferendosi allo sfogo post East Rutherford – Ogni volta che gioco in Argentina, i tifosi mi riempiono il cuore”. Come da previsioni.
In realtà l'esordio del 17 agosto 2005, in un'amichevole teoricamente senza troppo da ricordare in Ungheria, poteva già far presagire che non tutto sarebbe andato nel verso giusto. In quella gara Leo entra in campo al 65', ma si fa espellere dopo pochi secondi per una gomitata a un avversario, non riuscendo a contenere le lacrime nello spogliatoio. “Lo calmò Pekerman – ha raccontato Hugo Tocalli, suo ct nell'Under 20 – promettendogli che lo avrebbe incluso nelle convocazioni successive”. Un altro episodio controverso è legato alla finale del Mondiale per Club 2009 tra Barcellona ed Estudiantes: la decide ancora Messi, che esulta come un forsennato e si attira le antipatie dei sostenitori del Pincha, tra cori offensivi e insulti sui muri di La Plata. “Non è argentino”, arriva a dire qualche ascoltatore alle radio locali. I club sono i club e la Nazionale è la Nazionale, ma laggiù quell'episodio viene vissuto come una sorta di tradimento alla patria.
Il carattere di Messi, in questo senso, non aiutava granché. Leo è uno che non ha mai amato troppo mettersi in mostra. Ha sempre fatto parlare i fatti – leggi: i piedi – più che parlare lui stesso. Ed è per questo che qualcuno, riemergendo puntuale dopo ogni sconfitta, in Argentina ha iniziato a chiamarlo “pecho frío”, letteralmente “petto freddo”, espressione con cui si indica chi non ci mette il cuore, il sentimento in ciò che fa. La pensavano così alcuni tifosi, ma alla lista si era iscritto anche qualche giornalista. Quando tempo fa 'La Nacion' ha chiesto un parere a Daniele De Rossi,che a Buenos Aires ha indossato la maglia del Boca Juniors, l'ex centrocampista della Roma ha scosso la testa:
“Messi ha due palle giganti. C'è gente che ha il coraggio di chiamare Messi “pecho frío” da dietro un computer e poi non ha nemmeno le palle di chiedere alla moglie il telecomando per cambiare canale. Se in Italia racconti che in Argentina chiamano così Messi, si mettono a ridere, non capiscono. “Pecho frío” uno che ha segnato più di 1000 goal in carriera?”.
Certo, a volte il “pecho frío” in questione si è lasciato travolgere dalle emozioni. Anche troppo. Ricordate i malesseri accusati da Messi prima o durante le partite? È accaduto più e più volte. E ogni volta l'Argentina si è divisa tra i messisti e chi è sempre stato convinto che la maglia della Selección rappresentasse troppo per uno come lui (!). Una sorta di kriptonite della Pulce, qualcosa che lo trasformava dal supereroe che era al Barcellona a – tenetevi forte – un calciatore normale. O in un altro supereroe, ma iellato. Nel 2018 Diego Armando Maradona, che ha allenato Messi ai Mondiali sudafricani e durante la sua esperienza da commissario tecnico se l'è coccolato per bene, non era stato tenero nelle proprie critiche:
“Se fossi io il ct, non lo chiamerei. Pretendiamo da lui che sia un caudillo, ma non potrà mai esserlo. Lui è uno che, quando gli dici “sbatti la testa contro il palo”, preferisce giocare ai videogames”.
GettyL'immagine più appropriata, in realtà, sembrava essere un'altra: Messi ingobbito, stanco, costretto a sobbarcarsi un'intera squadra sulle spalle. Perché il Barcellona è il Barcellona, il PSG è il PSG e l'Argentina, beh, è l'Argentina. Giocare con Xavi e Iniesta è un conto, ma quando devi dialogare con Acuña e Guido Rodriguez, con tutto il rispetto, i discorsi cambiano. Per inciso: pure i vari commissari tecnici che si sono succeduti sulla panchina albiceleste, da Bauza a Sampaoli, ci hanno sempre messo del loro con qualche scelta strampalata. Come quando l'attuale allenatore del Siviglia si affidava al Pipa Benedetto – che, ironia della sorte, avrebbe poi ritrovato all'OM – in un match decisivo contro il Perú pur avendo a disposizione Agüero, Higuain e Icardi. Misteri.
A proposito: quella gara, datata 6 ottobre 2017 e disputata alla Bombonera, finisce senza reti. Niente miracolo “alla Palermo” sotto il diluvio, come otto anni prima. Ancora una volta l'Argentina rischia l'estromissione da una fase finale dei Mondiali. Quattro giorni dopo deve vincere a tutti i costi a Quito, in Ecuador, per essere certa del pass. Va subito sotto, lo psicodramma è servito, ma poi Lionel Kent si trasforma in SuperMessi. Segna una volta, due volte, tre volte. Ancora una volta si prende la Nazionale sulle spalle e la porta in Russia di peso. Ecco cos'è Messi. Se non è un caudillo, ci si avvicina molto. Leo trascinerà l'Argentina con un'altra rete decisiva alla Nigeria, a un passo da una rapidissima estromissione dai gironi, poi la Francia infrangerà ogni sogno agli ottavi di finale. Per l'ennesima volta.
E dunque, ecco di nuovo il "pecho frío". A ogni eliminazione, a ogni delusione, la narrativa del Messi che in Nazionale non rendeva come rendeva nel Barcellona continuava a risuonare nelle calles e sui quotidiani. A settimane e mesi alterni. L'amore diventava odio, l'idolatria scemava rapidamente nell'insofferenza. Anche se è una visione che convinceva qualcuno, ma non tutti. La maggioranza è sempre stata formata da coloro che si rendevano conto di essere dalla stessa parte del calciatore più forte del mondo. Come era già accaduto con Maradona. Nel 2015 un sostenitore aveva deciso di scrivere un lungo messaggio su Facebook in difesa del proprio campione, una sorta di carta aperta a cui i media avevano dato ampio risalto:
“Messi aveva undici anni quando ha lasciato la casa di sua madre per realizzare il sogno di diventare un calciatore. Tu hai 30 anni e fino a non molto tempo fa le chiedevi ancora di lavarti i vestiti. Messi aveva undici anni quando ha iniziato a iniettarsi ormoni per poter giocare a pallone. Lui stesso si infilava l'ago nelle gambe. Ricordi cosa facevi quando avevi undici anni? Io mi ricordo: uscivo da scuola e andavo a guardare la televisione come un pecho frío. [...] Il pianeta è pieno di pechos fríos. Il nostro Paese è pieno di pechos fríos. Solo ogni tanto compare qualcuno con gli attributi. E Messi è uno di questi”.
E poi ci sono ancora i dati. Gli altri dati, quelli individuali. Leo, naturalmente, è il miglior marcatore di sempre dell'Argentina: 97 reti, a un passo dal centinaio. Il primo e l'ultimo, ironia della sorte, li ha segnati contro lo stesso avversario: il 1° marzo 2006, sette mesi dopo il fattaccio di Budapest, puniva la Croazia, stesa di nuovo nella trionfale prestazione che ha aperto alla Selección le porte della finale.
Prima della Copa America 2021, Messi rifletteva pubblicamente sul proprio rapporto con la Selección, una sorta di bilancio tracciato con la mente e col cuore: “Credo che avremmo potuto far meglio. Ci sono dei bambini che non avevano mai visto l'Argentina giocare una finale. Non abbiamo vinto, ma l'importante è il cammino che abbiamo percorso”. Rimpianti annacquati dall'accettazione della realtà. Leo sapeva che il tempo stava passando. Era conscio che la sabbia non smetteva di scorrere nella clessidra. Le finali perse, la trentina ampiamente scollinata, le occasioni sempre più ridotte di conquistare finalmente un trofeo.
Rio, il lob di Angel Di Maria e la conquista della Copa América hanno spezzato la maledizione. Messi, nonostante quella finale abbia rappresentato la sua peggiore prestazione individuale della Copa, ha guidato la Scaloneta. Come un caudillo. Come si augurava Maradona. Si è preso con continuità la squadra sulle spalle, ha vinto da protagonista, ha donato al popolo un nuovo Leo: deciso, sfrontato, battagliero. In una parola: leader. Anche dopo le partite, dallo scontro con Louis van Gaal al "que miras bobo?" rivolto a Wout Weghorst e già diventato una specie di tormentone.
E ora c'è Lusail. Tra l'Argentina e il sogno di vincere un Mondiale per la prima volta dopo 36 anni c'è di mezzo la Francia di Kylian Mbappé. Ovvero l'avversario che ha estromesso Messi e compagni dalla Russia. Se la prima ossessione, ovvero vincere qualcosa con l'Argentina, è stata placata, ora c'è la seconda. Ed è ancor più pesante. Perché c'è di mezzo l'eredità di Maradona, perché la Selección possa slegarsi dall'eredità di Maradona e di Mexico '86. E perché l'ex supereroe iellato possa finalmente, e in maniera definitiva, completare la propria missione.


