GOAL“Olé olé olé olé... Tanooo, Tanooo...”
Il coro risuona sulle tribune, e si riverbera sul terreno di gioco di La Plata, ancor prima che il destinatario abbia toccato il suo primo pallone. È una dimostrazione d'affetto sulla fiducia, sul curriculum. Daniele De Rossi alza la testa, si immerge in quelle note e pensa che sì, lasciare l'Italia per tentare fortuna dall'altra parte del globo è stata proprio una scelta azzeccata. La decisione dell'impulso, più che della testa. Della follia, più che della ragione. Perché il suo cuore è sempre stato colorato di giallo e rosso, ma in un angolino ha trovato posto il Boca Juniors. Strana coesistenza.
La scelta di andare a giocare a Baires nell'estate del 2019, poche settimane dopo il doloroso e sentimentale addio alla Roma, è arrivata da piuttosto lontano. Il mondo ha scoperto la sua passione azul y oro circa un anno prima. I giallorossi di Eusebio Di Francesco hanno appena perso la semifinale di ritorno di Champions League contro il Liverpool e DDR si presenta davanti ai giornalisti. Peccato, testa alta, bravi loro, ci abbiamo provato. Poi arriva un reporter argentino e l'argomento cade proprio sul Boca Juniors:
“Il mio cuore è della Roma, però mi piace tantissimo il Boca. Ho iniziato a vedere il Boca quand'ero piccolo, perché c'era Maradona. Mi sono innamorato dello stadio. Io mi innamoro dei tifosi quando sono passionali e mi fanno piangere. Il Boca è un qualcosa che mi fa effetto. Ora ha tanti giocatori forti e non ha bisogno di me, però se penso a un futuro lontano da Roma, un'esperienza diversa, ho sempre detto che mi piacerebbe l'America ma anche salire quelle scalette ed entrare alla Bombonera da giocatore del Boca: sarebbe un piacere”.
Il collegamento tra De Rossi e la Baires gialla e blu, del resto, era già piuttosto forte. A partire dagli ex compagni alla Roma che quella camiseta l'avevano già vestita: Burdisso, Perotti, Gago, Samuel. Leandro Paredes ha raccontato che più di una volta ha assistito al Superclásico in tv con Daniele, sfidando magari la scomodità del fuso orario:
“Dal primo momento in cui ho messo piede a Roma, mi chiedeva del Boca”.
Ecco perché, nel giugno del 2019, quando De Rossi atterrava a Ezeiza per firmare col Boca, mezza città viveva una sorta di delirio collettivo. Un fiume umano di tifosi ha assiepato l'aeroporto per dargli il benvenuto. Perché si trattava di una leggenda del calcio italiano, europeo e mondiale. Di una bandiera della Roma. Di un campione del mondo con l'Italia. Ma anche di un personaggio che pareva essere nato per entrare a far parte, anche solo per un breve spezzone della propria vita calcistica, del mondo Boca.
De Rossi è stato il dodicesimo calciatore europeo e il quarto italiano a giocarci, nonostante il quartiere della Boca fosse destinazione prediletta degli immigrati genovesi (da cui il termine "xeneizes"). Il primo è stato Mario Busso, preistoria pallonara. Poi Vittorio Giovanni (Juan) Brattina e Nicola Novello. Oltre alla miriade di oriundi che hanno pure indossato la maglia dell'Italia: da “Mumo” Orsi a Gabriel Paletta, passando per Pablo Daniel Osvaldo e Cristian Ledesma.
Li chiamano “tanos", termine che deriva da “napolitanos”, napoletani. Tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo, gran parte degli immigrati arrivava in Argentina proprio da Napoli. Nelle settimane seguenti al via della sua avventura, si è sparsa la voce che De Rossi non amasse particolarmente quel nomignolo. Lui ha precisato, sorridendo, che è tutta una questione geografica.
“Una volta i miei compagni mi hanno detto: ti chiamiamo così perché sei napoletano. Io dico solo che non sono napoletano, sono romano. Per cui mi dovrebbero chiamare “mano”. Però va bene lo stesso, non ho nessun problema con i napoletani e nemmeno con questo soprannome”.
Al Boca, De Rossi ha lasciato il segno anche se ha giocato poco. Certamente meno di quanto avrebbe desiderato. È arrivato nel luglio del 2019 e nel gennaio del 2020, sei mesi più tardi e con due di anticipo sulla conclusione del contratto, già annunciava al mondo intero la propria decisione di lasciare. La squadra, l'Argentina, ma anche e soprattutto il calcio. “Non avrei mai pensato di poter amare così tanto un club che non fosse la Roma – ha detto durante la conferenza d'addio – Una parte del mio cuore resterà qui”.
L'esordio contro l'Almagro in Copa Argentina, la partita dei primi cori, è una sorta di promessa di ciò che potrà rappresentare quel rapporto così strano e già così intenso. Alexis MacAllister, che oggi gioca in Premier League con il Liverpool, calcia un angolo a rientrare da sinistra. E in mezzo alla confusione spunta proprio la testa di De Rossi, che indirizza il pallone dentro la porta avversaria. L'esultanza è piuttosto normale e contenuta: niente occhi sbarrati, solo un paio di braccia alzate verso il cielo aspettando l'abbraccio dei compagni. Il sogno del “tano”, come quando nel 2004 andava a segno al debutto con l'Italia, si è già trasformato in realtà.
“Dovevo marcarlo io, sì, però sono stato spinto – racconta dopo la partita Brian Benítez, centrocampista dell'Almagro – Dopo aver segnato, De Rossi è venuto da me e mi ha detto: “Era fallo, vero?”. Io gli ho risposto: “Ma tanto a te non lo fischiano”. E lui: “Ma qui in Argentina falli così non li fischiano mai”. Si nota che ha già capito tutto”.
Non tutto, a dire il vero, va per il verso giusto in quella serata apparentemente apparecchiata per entrare nella storia del club. Anzi, la rete di De Rossi è l'unica nota positiva di un contesto infelice. Pochi minuti dopo aver segnato, l'ex giallorosso mostra immediatamente il proprio lato “cattivo” con un intervento falloso che tanto ricorda il tatuaggio che esibisce sul polpaccio destro. Il Boca non trova il raddoppio e il piccolo Almagro pareggia a otto minuti dalla fine con Juan Manuel Martínez, un ex. E ai calci di rigore completa l'impresa, eliminando clamorosamente gli xeneizes dal torneo.
Va meglio nelle settimane successive. De Rossi, maglia numero 16 sulle spalle, viene schierato titolare dal tecnico Alfaro sia contro l'Aldosivi che contro il Banfield, sempre in campionato. E il Boca fa due su due. Non gioca in casa della LDU, nell'andata dei quarti di Libertadores, perché per chi non è abituato, correre ai 2850 metri d'altitudine di Quito non è mica uno scherzo. Quindi, il 1° settembre, ecco il primo Superclásico della carriera di DDR. Ironia della sorte, proprio nelle ore successive al derby romano, finito 1-1. Al Monumental è invece 0-0, partita tesa e scialba. Daniele, che resta in campo una settantina di minuti, ha spuntato l'ennesima casella delle cose da fare almeno una volta nella vita.
Il guaio è che gli acciacchi fisici dell'ultima parte di esperienza romanista sono sempre in agguato. Un infortunio muscolare piuttosto serio costringe De Rossi a fermarsi proprio sul più bello. Tra la fine di settembre e l'inizio di novembre Daniele non gioca mai, saltando anche il doppio Superclásico delle semifinali di Libertadores. 180 minuti che, per la cronaca, sorridono nuovamente al River Plate, com'è accaduto meno di un anno prima nella leggendaria finale del Bernabeu: 2-0 al Monumental, ininfluente sconfitta per 1-0 alla Bombonera e altra finale per il Millo.
L'avventura boquense di DDR, in sostanza, si chiude qui. Il “tano” colleziona un altro paio di spezzoni in campionato tra fine novembre e inizio dicembre. L'ultima presenza è sul campo del Rosario Central, che vince 1-0 grazie a una rete di Sebastian Ribas, meteora interista. Poi, pian piano, De Rossi inizia a maturare la decisione di fermarsi. Dopo sette presenze complessive e una rete. Il 6 gennaio del 2020 abbandona sulla propria auto il ritiro di Ezeiza. E qualche ora dopo si presenta in sala stampa per annunciare al mondo la propria scelta di diventare a tutti gli effetti un ex calciatore.
“Nessuno nella mia famiglia ha problemi di salute, né abbiamo problemi seri. Me ne vado perché ho il bisogno di essere vicino alla mia famiglia e mi manca molto. La dirigenza voleva convincermi, ha fatto tutto il possibile. Mi hanno detto di prendermi il mio tempo e di darmi tutto l’aiuto possibile. Ma non ho bisogno di aiuto. Lascio il mio lavoro, il mio sport, la mia passione. Sono triste perché avrei voluto giocare altri dieci anni”.
Il bello è che De Rossi è uno dei pochi calciatori capaci di vincere un titolo... dopo il ritiro. Due mesi dopo quella conferenza, proprio nei giorni in cui sul mondo sta per abbattersi l'incubo Covid, il Boca Juniors batte il Gimnasia La Plata di Diego Armando Maradona e si laurea campione d'Argentina, superando all'ultima giornata un River Plate fermato sul pareggio dall'Atlético Tucuman. Secondo il regolamento, anche Daniele è campione. La medaglia dei vincitori gli è stata recapitata dal club in Italia.
“Avrei bisogno di una quarantena intera per raccontare quello che ho vissuto in quei sei mesi a livello di emozioni – ha detto De Rossi a 'Sky' nell'aprile del 2020 – È un posto unico, molto più simile di quanto pensiamo all'Italia. È un posto che vive di passione per qualsiasi cosa: per il cibo, per la musica. Ed è una passione che sfocia clamorosamente nel calcio. Si può discutere tatticamente e tecnicamente di quel campionato, ma in sei mesi non ho visto un solo giocatore che abbia tirato indietro la gamba, sia in allenamento che in partita. Non voglio fare il ruffiano, non mi piace, ma la cosa più bella la vivi sugli spalti: qualcosa che noi non viviamo più in Italia. Non c'è più quel tipo di calore e quel tipo di passione disinteressata. E poi la Bombonera è lo stadio più assurdo e clamoroso del mondo. L'augurio che faccio a tutti gli appassionati è di poterlo visitare almeno una volta durante una partita del Boca”.
L'ultimo De Rossi versione azul y oro è comparso qualche settimana fa. Il suo ex compagno Carlitos Tévez ha iniziato ad allenare, poco dopo aver annunciato ufficialmente il ritiro da calciatore, ed è stato assunto dal Rosario Central. Daniele gli ha recapitato un videomessaggio di auguri in uno spagnolo perfetto, con una piccola concessione all'italiano: “In bocca al lupo, Carletto”. E Tévez: “Che grande Daniele”. Lo stesso sentimento di tutti i tifosi del Boca. Perché le leggende lasciano sempre qualcosa di sé. Anche se hanno giocato appena sette volte.




