"Una volta ho incontrato Gesù Cristo dopo 18 caipirinha e 14 birre".
Parole che lette così posso anche far sorridere, magari scambiandole per un'esagerazione un po' border line.
In realtà c'è ben poco da ridere dietro queste dodici parole, più una richiesta di aiuto che un'aforisma, pronunciate da Cicero Joao de Cezare in arte Cicinho.
A nemmeno 25 anni, aveva tutto. Il talento, concentrato soprattutto nel piede destro e nella velocità nello stretto, lo aveva portato a lasciare il Brasile per tentare il grande salto in Europa.
E non in una piazza qualunque, ma nella più prestigiosa del mondo: il Real Madrid. Nel 2005 Cicinho è titolare della nazionale del suo Paese - con la quale vince la Confederations Cup in Germania - e dei Blancos che inseguono la Decima.
Niente sembra poter fermare il brasiliano dal farsi interprete di una carriera di assoluto livello. Nemmeno la rottura di un ginocchio.
Nel settembre 2006, in una partita di inizio stagione contro il Betis Siviglia, il legamento crociato sinistro fra crac. Ma non c'è problema, la riabilitazione è rapida e non lascia conseguenze, al punto che il terzino riesce addirittura a tornare per la fine della stagione e rendersi protagonista nella cavalcata verso il titolo della Liga numero 30 della storia del Real Madrid.
Il secondo anno a Madrid però qualcosa inizia a incrinarsi. Il rapporto con il nuovo allenatore Bernd Schuster, erede di FabioCapello, stenta a decollare e il brasiliano finisce in panchina.
Inizia a interessarsi a lui la Roma di Luciano Spalletti, che fiuta l'affare per portare nella capitale un giocatore tecnico ma dal costo contenuto. Poca disponibilità economica da parte del club di Trigoria porta a lunghe ed estenuanti settimane di negoziazione, con il ds romanista Daniele Pradé che alla fine riesce ad abbassare le pretese della Casa Real, facendo leva sulla voglia di riscatto del calciatore.
Cicinho viene accolto da una folla festante a Fiumicino (a dire il vero una consuetudine nei pressi dei due aeroporti della Capitale) e l'amore con il quale viene salutato il suo sbarco nella Capitale viene immediatamente ripagato.
Con l'allora tecnico romanista Luciano Spalletti il feeling scatta immediatamente. Al primo anno, totalizza 44 presenze e vince la Coppa Italia, mettendo anche a segno due goal e sei assist in tutte le competizioni.
E soprattutto si toglie una grande soddisfazione. Eliminare dalla Champions League agli ottavi di finale il Real Madrid e soprattutto mister Schuster. Quello che lo ha voluto lontano da Madrid a tutti i costi.
Ma i demoni che perseguitano il brasiliano iniziano a emergere anche a Roma. Il secondo anno nella capitale Cicinho inizia ad accumulare qualche passaggio a vuoto. La fotografia della sua stagione è il clamoroso autogoal che inchioda i giallorossi sull'1-1 in casa del Bologna.
Da quel momento in poi l'avventura del terzino - che nel frattempo ha perso anche la nazionale carioca - assume le sembianze di un lento e inesorabile piano inclinato. Anche la fortuna gli volta le spalle. A dargli problemi è sempre il ginocchio, stavolta il destro, che riporta una seria lesione al legamento crociato.
Stagione finita. E forse non solo quella. Cicinho rientra dopo sette mesi dopo, ma non è più non solo il giocatore che a 25 anni si era preso la titolarità del Real Madrid e del Brasile, ma nemmeno quello che si era imposto come motorino sulla fascia alla Roma. Ma il perché di questa involuzione non è fisico. O meglio, non è colpa dell'infortunio al ginocchio.
Dopo la Roma, che se ne libera senza più rimpianti dopo aver capito di non poter più recuperare il calciatore, Cicinho inizia una lunga peregrinazione che lo porta a fare la spola tra Brasile, Spagna e Turchia, prima di ritirarsi all'età di 36 anni.
Per rivelare i motivi di questo climax discendente che da astro del calcio internazionale lo ha portato ad un finale di carriera nell'anonimato, il brasiliano impiega qualche anno. Ma alla fine rompe il silenzio.
In una lunga intervista all'Estado de Sao Paulo nel marzo del 2020, Cicinho per la prima volta svela al mondo i tratti somatici dei suoi demoni interiori.
"Ho cominciato a bere quando avevo 13 o 14 anni, quando ero al Botafogo di Ribeirao Preto. Mi dissero che la birra era buona, quindi l'ho assaggiata. È cominciato tutto con il primo sorso ed è durato fino a quando ho avuto trent'anni. Quasi due decenni a bere, più o meno dieci birre al giorno".
Un calcolo impossibile da quantificare a livello di litri di alcool ingeriti. Ma non basta. Perché una dipendenza ne porta sempre con sé in eredità altre. E alle birre, Cicinho affianca il vizio del fumo:
"Ho fumato per undici anni, dal 1999 al 2010. Vero, fumavo solo quando bevevo, ma considerando quanto bevevo...fumavo tutto il giorno".
Come tutte le persone che purtroppo vengono sopraffatte da qualche dipendenza, anche Cicinho viene allontanato dai suoi affetti più cari. Tra i quali il calcio.
Ciò che prima lo rendeva felice e gli aveva fatto sfiorare il cielo con un dito, giorno dopo giorno diventa una consuetudine insostenibile e insopportabile. Da evitare il più possibile, da affrontare nel peggiore dei modi quando capita di averci a che fare.
Ma nelle parole del brasiliano ci sono tutto il rammarico e tutta l'amara consapevolezza di chi ha dissipato una fortuna gigantesca che ha avuto tra le mani. Anzi, tra i piedi.
"Quando Dio ti dà un dono e tu non sai gestirlo è perché in te c'è qualcosa che non va. All'epoca in cui ero alla Roma, avevo trent'anni, nel 2010. A un certo punto non mi divertivo più a scendere in campo, non riuscivo ad allenarmi e a concentrarmi".
Proprio l'ultimo periodo in giallorosso è quello nel quale il brasiliano molla completamente gli ormeggi sulla sua carriera.
"Andavo a Trigoria, mi allenavo ma sapevo che la domenica non avrei giocato. E allora quando arrivavo a casa bevevo molto e fumavo. A casa avevo casse di birra e altri tipi di alcool, bevevo da solo o insieme a falsi amici. Mi piaceva andare in discoteca, bevevo e non riuscivo a fermarmi. Non ho preso la droga solo perché sapevo che c'erano i controlli antidoping, altrimenti l'avrei fatto".
La storia di Cicinho si conclude però con un parziale lieto fine. A dimostrazione che non è mai troppo tardi per rimettersi in carreggiata.
A tirarlo fuori dalle sabbie mobili nel quale era rimasto impantanato sono l'incontro con una donna, Merry, e quello con la religione, al punto che è stato immortalato mentre su un autobus affollato si esibisce in una predica spassionata sull'importanza di Dio nella vita delle persone.
L'incontro con l'amore della sua vita lo porta a riabbracciare la vita e la passione per il calcio. Cicinho chiude con alcool e fumo, trovando sostegno nelle persone che non lo hanno abbandonato e a quelle nuove che lo hanno riscoperto.
La speranza di Cicinho è quella di essere ricordato per come ha superato i suoi problemi più che per le sue imprese in campo e di diventare l'esempio (da non seguire) per chiunque rischi di gettare al vento la propria carriera per colpa di una dipendenza.
"Mi auguro che le persone conoscano la mia storia e che sia loro d'aiuto, perché è triste vedere grandi calciatori che possono influire sulle persone per fare del bene, ma lo fanno con cattivi esempi".
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