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Astutillo Malgioglio, il portiere che parava per i più deboli

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Sfogliando gli album di figurine, a tutti coloro che erano bambini negli anni '80 del secolo scorso, cadeva l'occhio inevitabilmente su quella di un portiere, Astutillo Malgioglio. Ad attirare la curiosità e la simpatia dei più piccoli erano quel suo nome non comune e quel viso sorridente che ispirava fiducia dietro i suoi baffi.

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'Tito', il diminutivo con cui lo chiamavano i suoi compagni di squadra - anche se come un altro suo celebre collega, Luciano Bodini, ha speso gran parte della sua carriera come dodicesimo - era un buon portiere. Aveva un fisico scultoreo e tanto coraggio. Ma le sue parate più belle (i bambini questo allora non potevano saperlo) le ha fatte fuori dal campo con il suo impegno e la sua opera in favore dei meno fortunati, i ragazzi affetti da disabilità, fisica e psicologica.

La sua è una storia di straordinaria dolcezza, spesso non compresa da un mondo, quello del calcio, che gli chiedeva soltanto di pensare a neutralizzare i tiri degli avversari senza curarsi troppo dei problemi degli altri. Nato a Piacenza, il 3 maggio 1958, cresce calcisticamente nelle Giovanili del San Lazzaro, poi passa alla Cremonese e quindi al Bologna. Con gli emiliani debutta in Serie A il 22 maggio 1977. In quella gara, ultima giornata di campionato, il tecnico rossoblù Cervellati gli concede la passerella facendolo entrare in campo negli ultimi 10 minuti al posto di Franco Mancini.

Nel 1977/78 passa al Brescia, in Serie B. Con le Rondinelle gioca titolare per 5 stagioni, vive gli anni più belli della sua carriera da calciatore e scopre la sua vocazione. È la sera di Natale del 1977 e alcuni amici convincono il diciannovenne portiere piacentino, cattolico praticante, a far visita a un centro per bambini cerebrolesi. Malgioglio ci va con la sua fidanzata, Raffaella, e arriva per lui la folgorazione.

"Mi impressionò la loro emarginazione, - ha raccontato a 'Il Fatto Quotidiano' - l'abbandono, il menefreghismo della gente. Fu un'emozione fortissima, un pugno nello stomaco. I miei genitori si sono sempre impegnati nel sociale e mi avevano già insegnato il rispetto e la solidarietà verso gli altri, ma quel giorno tutto mi apparve chiaro".

Quella visita cambia per sempre la vita di Astutillo. L'estremo difensore si sposa, ha una figlia, Elena, e decide di spendere una parte importante del suo tempo e dei suoi guadagni per aiutare i ragazzi meno fortunati

"Parlai con Raffaella e decidemmo che non saremmo rimasti con le mani in mano. La vita non è solo una palla di cuoio. Ci mettemmo a studiare, acquistammo i macchinari e aprimmo a Piacenza un centro per la riabilitazione motoria dei bambini. Chiamai la palestra 'ERA 77', dalle iniziali del nome di mia figlia Elena nata nel 1977, di mia moglie Raffaella e del mio. Offrivamo terapie gratuite ai bambini disabili. Li aiutavamo a camminare, a muoversi da soli". 

Porta avanti i suoi studi e si laurea in Medicina, mentre Raffaella consegue il Diploma ISEF. Nel 1980, dopo la squalifica di Zinetti, Azeglio Vicini lo vuole nell'Italia Under 21 come vice Giovanni Galli. Ma il mondo del calcio non lo capisce, e anzi, spesso lo ostacola e lo deride. Essere buoni in un mondo cinico e spietato è follemente percepito come un limite, anziché una qualità. E Malgioglio se ne accorge presto.

Al Brescia, dopo aver dato un contributo fondamentale alla promozione nel 1979/80, nella stagione 1981/82 - con i lombardi in Serie B -  quando Marino Perani subentra ad Alfredo Magni, lo mette fuori squadra, accusandolo di scarso impegno.

"Quello pensa agli handiccapati anziché parare"

Ma le cose non stanno come pensa l'ex ala del Bologna e della Nazionale.

"In tutta la carriera non ho mai saltato un allenamento. - sottolineerà Malgioglio anni dopo - Ero uno di quelli che si definiscono 'professionisti esemplari' ". 

Il risultato? Il Brescia retrocede in C1. Nel 1983 'Tito' riceve la chiamata della Roma di Liedholm e accetta. Pur giocando poco, si guadagna la stima del tecnico svedese, che gli consente di usare la palestra di Trigoria per assistere i suoi ragazzi, come farà anche Eriksson dopo di lui.

"Dei due anni in giallorosso conservo ricordi splendidi. Ho avuto ottimi rapporti con tutti. La società mi è sempre venuta incontro: portavo i bambini disabili a Trigoria per la rieducazione, usavo la palestra della squadra dopo l'allenamento".

Fra i compagni il portiere piacentino lega particolarmente con il capitano Agostino Di Bartolomei.

"Aveva una sensibilità particolare. Come me parlava poco, ma aveva un cuore grande. Andavamo spesso negli ospedali a trovare i bambini ricoverati in terapia intensiva".

Da portiere di riserva vince la Coppa Italia e arriva in finale di Coppa dei Campioni. Con l'arrivo di Eriksson trova meno spazio e questo lo porta, per orgoglio, ad accettare la proposta di Gigi Simoni, che lo vuole come titolare alla Lazio nella stagione 1985/86, e a rifiutare quella del Bari in Serie A.

Quello in biancoceleste sarà però per lui l'anno più difficile della sua carriera. La squadra non brilla in Serie B, e Malgioglio e il suo impegno verso i più deboli diventano il capro espiatorio del tifo più becero. Iniziano così ad apparire in Curva Nord striscioni deprecabili e assurdi cori.

"Sporco romanista, sei il primo della lista”, gli urlano appena prende goal in un successo per 3-1 contro il Cagliari, ma anche: "Se stai sempre con gli handicappati, quanno ce pensi ar pallone?".

La situazione per il portiere diventa presto insostenibile e non gli viene perdonato nulla. A Tor di Quinto, il vecchio complesso in cui Tommaso Maestrelli aveva edificato lo Scudetto della Lazio nel ’74, gli distruggono l'auto con mazze e bastoni, ma non viene trovato nessun responsabile.

"Fu una stagione tormentata. La squadra stentava, la società era assente e disorganizzata, i tifosi non mi lasciavano in pace. Criticavano il mio impegno fuori dal campo, insultavano la mia famiglia. Mi sono sempre chiesto il perché di tanto odio; non ho mai preteso applausi, solo un po' di rispetto". 

Dopo ogni allenamento si ripete lo stesso triste rituale: contro Malgioglio vengono lanciate bottigliette, fischi e pomodori. Ma non basta. Si scagliano contro sua moglie, colei che rappresentava il suo punto di riferimento più importante, con cui condivide la stessa sensibilità verso i più deboli. Non soddisfatti, se la prendono anche con sua figlia Elena, nel modo più becero, insultandola a scuola.

Finché si arriva alla partita contro il Vicenza, che segna il punto di non ritorno con la tifoseria biancoceleste. Il 9 marzo 1986 si gioca all'Olimpico Lazio-Vicenza. Gli insulti e i cori contro 'Tito' da parte dei tifosi capitolini sono insostenibili. Il portiere è tutt'altro che sereno e compie due errori gravi che portano i biancorossi a vincere 4-3. In Curva Nord spunta lo striscione in assoluto più squallido.

"Tornatene dai tuoi mostri".

Malgioglio, che ha accumulato tutto dentro di sé, non ne può più e perde le staffe. Uscendo dal campo si toglie la maglia, e dopo averci sputato sopra, la lancia con rabbia verso gli ultras della Lazio. Un gesto estremo, certamente non bello, ma arrivato dall'esasperazione di un uomo onesto. La sua esperienza romana è di fatto finita in quel momento. La società lo sospende a tempo indeterminato e chiede alla FIGC la sua radiazione per 'oltraggio alla maglia'. Tito non aspetta di essere giudicato e decide prima. Senza pensarci troppo rescinde il suo contratto ed è intenzionato a dire basta al calcio.

"Pur avendo dato tutto me stesso per la squadra, fui preso di mira dall'inizio come capro espiatorio. - disse a 'L'Unità' - Mi tolsi la maglia con la consapevolezza di dire basta col calcio. I dirigenti si scatenarono e recitarono da ultrà. Proposero la mia radiazione. Fu come essere aggredito un’altra volta. Mi accusavano con frasi prive di senso: 'La bandiera non si tocca', arringavano. 'Malgioglio l’ha sporcata, deve andare via' ".

"Quello che mi ferì di più, però, non furono le cattiverie nei miei confronti ma la totale mancanza di rispetto, di solidarietà, di pietà per quei bambini sfortunati che non c'entravano niente. 'Mostri', così li hanno chiamati. Il giorno dopo a Piacenza ho visto i genitori di quei bambini, che mi guardavano negli occhi. Non sapevo cosa dire. Mi sono vergognato per quei tifosi. Molti di quei bambini oggi non ci sono più".

Astutillo torna a Piacenza a dedicarsi ai suoi ragazzi a tempo pieno. Il calcio sembra già il suo passato, quando gli arriva una telefonata inaspettata: è Giovanni Trapattoni, che lo vuole all'Inter per fare la riserva di Walter Zenga

"Ho letto che abbandoni, mi dispiace. È un peccato. Ripensaci. Se lo desideri, per uno come te, all’Inter c’è sempre spazio. Il calcio ha bisogno di figure come la tua".

Il portiere piacentino accetta e a Milano vive una seconda giovinezza. In 5 anni, pur giocando poco (19 presenze in tutto nelle varie competizioni) trova l'umanità che cercava.

"Credo sia stato Dio a mettere quell’uomo sulla mia strada: e in quel momento, poi! Durante i ritiri, la sera, Trapattoni aveva l’abitudine di fare il giro delle stanze per dire una parola a ciascuno di noi. A volte entrava nella mia, si fermava sulla porta e si metteva a piangere. Non diceva niente, ma in realtà mi parlava. Era un uomo che viveva per il calcio e per il lavoro ma che sapeva che nella vita c’è molto altro. E se io ero lì, davanti a lui, era perché ero un buon portiere, certo, ma anche perché aveva visto in me l’uomo".

Vince lo Scudetto dei record e la Coppa UEFA 1991, ma la sua vittoria più bella è il tempo che trascorre accanto agli ultimi.

"Con gli ingaggi dell'Inter rinnovai la palestra con attrezzature all'avanguardia. I ragazzi venivano da tutta Italia per fare rieducazione nel mio centro. Facevo allenamento al mattino ad Appiano, poi al pomeriggio lavoravo, facendo terapia con un disabile all’ora. Se c’era allenamento al pomeriggio, arrivavo a Piacenza in tempo per farne uno solo, verso sera. Dicevano che mi distraeva, invece a me dava una carica straordinaria".

Riesce persino a coinvolgere alcuni dei suoi compagni. Su tutti un tedesco solitamente freddo come Jurgen Klinsmann. Dopo un allenamento chiede a Malgioglio di poter venire con lui, lo osserva mentre aiuta i bambini e commosso, prima di farsi riaccompagnare a Milano, stacca un assegno da 70 milioni di lire. Un caso raro per la categoria: in una raccolta fondi organizzata dall'AIC per perorare la causa del portiere, sono raccolte appena 700mila lire.

"Jurgen veniva anche due volte a settimana, - ricorda Malgioglio - evidentemente l’avevo colpito. Veniva nelle case dei ragazzi, mangiava con loro, parlava coi genitori. Una gran persona. Aveva un atteggiamento bello, senza pudori. Era libero. È stato l’unico".

La carriera lo mette di fronte poi a uno snodo imprevisto. È il 4 marzo 1990 e al Flaminio si gioca Lazio-Inter. Zenga non sta bene, tocca a 'Tito'. Proprio contro la sua ex squadra e quei tifosi che non lo hanno mai perdonato.

"Trapattoni non ebbe alcun dubbio: 'Vai in campo, non sentire i fischi che arriveranno, dimostra che uomo e che portiere sei'. Il clima era teso, il presidente Pellegrini mi chiese di portare dei fiori alla curva laziale per non far scatenare gli ultras. C'era il rischio di incidenti. Io gli risposi che non sarebbe servito a niente, perché sapevo che la natura delle persone non muta. Ma a malincuore portai quei fiori".

Fischi assordanti, e dalla Curva piove in campo di tutto.

"Radioline, pile, bottiglie e io in piedi, senza mai cadere. L’arbitro non sospende la gara, io riesco a rimanere in piedi. Esco ferito. Il sangue che scende sul volto. La partita inizia con 15 minuti di ritardo per lancio di oggetti contro la mia porta. Mi dicono di tutto. Perdiamo 2-1 ma sono il migliore in campo. Poi restiamo bloccati negli spogliatoi per parecchio tempo. I tifosi volevano assalirmi". 

Nel 1991, quando Trapattoni saluta, anche per Astutillo finisce l'esperienza con l'Inter.   

"Mi si fece davanti e mi guardò con lo sguardo di chi sa che l’avventura è finita: per lui e per me. Tolse di tasca un biglietto, scritto a mano, e me lo porse. Sapevo perfettamente le parole che avrei letto. E sì, il biglietto scritto a mano dal Trap è il più bel ricordo che mi è rimasto del calcio".

Malgioglio gioca un'altra stagione con l'Atalanta, poi dice basta nel 1992, a 34 anni dopo 264 gare dispuate fra i professionisti. Continuando a impegnarsi per quella che era diventata l'essenza della sua vita. Il pallone si dimentica presto di lui e nel 1994, per mancanza di fondi, deve chiudere la sua palestra.  

"Offrivo assistenza gratuita, e il denaro per un’idea del genere, l’unica possibile, non c’era più. - ha spiegato - Ho regalato i macchinari. Finché ho potuto, raggiungevo i pazienti a domicilio".

Subentra un momento difficile anche a livello personale, con un problema psicologico che lo mette a dura prova. Nel 2001 la sua associazione 'Era77' deve cessare l'attività. 

"Pensavo di non venirne fuori. Ma ora ho ripreso ad aiutare gli altri con mia moglie Raffaella e sono molto felice. - ha detto al 'Corriere della Sera' - Mettiamo a disposizione la nostra esperienza. Io ho sempre usato le mani, il Signore mi ha dato questo talento e continuo a farlo, stando in mezzo alla gente che soffre, dando tutto me stesso. Perché, come dice il mio padre spirituale, le mani bisogna sporcarsele, mettendole anche nella m***a".

Sviluppa progetti di sporterapia e continua a battersi per l'integrazione nello sport fra disabili e normodotati. Quando lo invitano va a parlare della sua attività agli studenti nelle scuole. Riceve il premio 'Sportivo Più' nel 1995, nel 2017 è insignito del premio ISUPP (acronimo di 'Io sono una persona perbene'), mentre l'Inter nel 2019 gli conferisce il premio BUU - Brothers Universally United per "il suo insegnamento, la capacità di spendersi in maniera sincera e silenziosa per chi soffre". I tifosi del Brescia lo scelgono come miglior numero uno del secolo delle Rondinelle.

Lui, il portiere che parava per i più deboli e li metteva al primo posto, ringrazia e continua a portare avanti la sua missione in silenzio.

"Riconosco che con i mezzi che avevo come calciatore potevo fare di più. - ha detto recentemente al 'Corriere della Sera' - Tutte le scelte che ho fatto in carriera sono state 'extracalcistiche' e qualche errore l'ho commesso, ma non ho rimpianti. Sono una persona molto fortunata. Ho incontrato e incontro persone stupende e ne sento il calore".

Il presidente Sergio Mattarella ha conferito ad Astutillo Malgioglio l'onorificenza al Merito della Repubblica Italiana, destinata a chi si è distinto per atti di eroismo, per l'impegno nella solidarietà, nel volontariato, per l'attività in favore dell'inclusione sociale, nella cooperazione internazionale, nella promozione della cultura, della legalità, del diritto alla salute e dei diritti dell'infanzia.


"Per il suo costante e coraggioso impegno a favore dell’assistenza e dell’integrazione dei bambini affetti da distrofia".

Inserito tra i 33 nuovi insigniti del 2020 e 2021 dal Capo dello Stato, Malgioglio è stato premiato durante la cerimonia di consegna delle onorificenze che si è svolta al Palazzo del Quirinale il 29 novembre 2021.

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