
“Quando un forestiero viene al Sud piange due volte: quando arriva e quando parte”.
Difficile immaginarsi Stefan Schwoch disperarsi per il destino toccatogli in sorte come fa Claudio Bisio in “Benvenuti al Sud”, film cult del 2010 in cui il direttore di un ufficio postale viene trasferito dalla Brianza a Napoli fino a innamorarsene piano piano, giorno dopo giorno, piangendo nel giorno del doloroso distacco per tornare al Nord. Più facile, semmai, pensare a Schwoch che versa una lacrimuccia quando Napoli deve lasciarla, lui che ai piedi del Vesuvio è diventato una sorta di icona di quegli anni nonostante la maglia azzurra, in fondo, l'abbia indossata appena per una stagione e mezza.
Schwoch, del resto, non è uno qualsiasi: sul trono dei capocannonieri all time della Serie B siede lui con le sue 135 reti, una più di Daniele Cacia e due più dell'Airone Caracciolo. E che c'azzecca con Napoli, piazza da anni abituata all'altissima classifica, ai campioni, alla costante partecipazione alle coppe europee? C'azzecca, come no. Perché nelle stagioni buie tra la fine del vecchio secolo e l'inizio del nuovo è lui uno dei simboli principali dell'orgoglioso guizzo di un gigante addormentato, sofferente, sprofondato nel baratro, destinato a qualche altra primavera di passione prima di tornare ai vertici ma intanto, almeno per qualche mese, protagonista di un romanzo che chi c'era non ha dimenticato. Nemmeno 20 anni dopo.
"SI FA AZZURRO IL CIELO IN UN TUO GOAL"
1999/2000, la stagione di Walter Novellino. E di Stefan Schwoch, appunto, che con l'allenatore avellinese ha già lavorato a Ravenna e Venezia. Il bolzanino è arrivato pochi mesi prima, a metà dell'annata precedente, per risollevare le sorti di un club caduto in disgrazia. Gli anni belli di Maradona e degli Scudetti appaiono lontanissimi: nel 1998 il Napoli ha chiuso all'ultimissimo posto in A, con due vittorie e 24 sconfitte (!) in 34 partite. Retrocessione inevitabile. E non è che in B le cose vadano molto meglio: il Napoli di Ulivieri fatica, balbetta, in casa non vince mai, ne busca 4 dal Ravenna. I primi quattro posti sono una chimera. Urge cambiare, e in fretta.
E così, a gennaio arriva lui. Capelli da hippy anni Sessanta, fascetta a tenerli legati in qualche modo, in campo quel fare elettrico che non può non conquistarti a prima vista. Stefan, altoatesino che in carriera non si è mai spinto più in basso di Livorno, arriva dal Venezia, dove a quasi 30 anni ha assaporato l'ebbrezza della Serie A, segnando il primo goal in campionato dei lagunari dopo sei giornate (1-1 a Udine) e ripetendosi a Firenze in una gara persa malamente per 4-1. Durante il mercato invernale i veneti hanno deciso di disfarsi di lui per puntare su Alvaro Recoba, ed è una scelta che, come ha insegnato la storia, è destinata a pagare. Per entrambi.
“Quando seppi della mia cessione al Napoli – ha raccontato Schwoch qualche anno fa – non volevo nemmeno dirlo a mia moglie. Quando glielo riferii, lei mi minacciò: 'Tu laggiù ci vai da solo, io non ci vengo'. Però sia lei che mio figlio si trovarono talmente bene che, quando mi vendettero al Torino, mi disse: 'Lassù non ci torno'. Mi viene in mente il film “Benvenuti al Sud”, ma a me è accaduto veramente”.
L'esordio di Schwoch al Napoli avviene il 6 gennaio '99 contro la Lucchese. Al San Paolo sono in più di ventimila a dare fiducia alla squadra nonostante i risultati negativi. In campo dal primo minuto c'è quel piccoletto tutto guizzi e scatti, che ben presto diventa per tutti l'attrazione principale. Dopo il vantaggio dei toscani, è lui a trascinare di peso gli azzurri verso la rimonta e il secondo successo interno della stagione: assist per l'1-1 di Rossitto, rete del definitivo 2-1 con un tiro di destro in diagonale. Ragazzi, che debutto.
“Non è il gigante d'area che tutti aspettavano – è il racconto di Francesco Marino per la 'Domenica Sportiva' – ma va bene lo stesso quando l'ex del Venezia accende i suoi 70 chili tutti di nitroglicerina, infiammando il San Paolo come non accadeva da tempo”.
L'amore tra Schwoch e il Napoli nasce in quel freddo pomeriggio invernale. E si consolida ben presto. La stagione finisce male, con un nono posto che sa tanto di fallimento, ma Stefan segna altre cinque volte. L'anno dopo va ancora meglio: sfonda 22 volte in campionato, eguagliando dopo quasi 70 anni il record di Antonio Vojak (in seguito saranno Cavani e Higuain a superare entrambi, con 29 e 36 centri rispettivamente) e trascinando gli azzurri al ritorno in A. Si trova a meraviglia con Roberto Stellone, come con Michele Cossato a Venezia e come farà con Massimo Margiotta a Vicenza. In panchina c'è Walter Novellino, che Schwoch l'ha già allenato al Ravenna e al Venezia. E in rosa un giovane Massimo Oddo, destinato ai più alti palcoscenici.
Difficile crederlo oggi, nell'epoca di Kvaratskhelia e post Mertens e Koulibaly, ma in quei mesi a Napoli scoppia la Schwoch-mania. Saranno quei capelli fuori dall'ordinario, sarà il suo modo di giocare, sarà – ovvio – il fatto che la butta dentro a ripetizione, ma dopo annate di depressione calcistica Stefan è la scarica d'adrenalina che dà la scossa a tutto l'ambiente. Poco importa che sia un dio minore per chi ha vissuto l'era Maradona: è così e basta. E per capirlo basta andare su YouTube e ascoltarsi “Napoli mia Napoli”, canzone creata in suo onore in cui anche lui esibisce le proprie doti canore.
“Stefan dimmi cos'è, che ci sentiamo amici/che ci sentiamo uniti e siamo più felici/dimmi che batte in fondo al cuore/quando lo stadio urla il tuo nome/e si fa azzurro il cielo in un tuo goal”.
Resa l'idea? Non ancora? Bene: di nuovo YouTube, di nuovo “Schwoch” e “Napoli” nella stringa di ricerca. Vi comparirà un video, spezzettato in cinque parti, ancor più surreale per chi non ha vissuto quell'epoca ma pienamente indicativo del rapporto venutosi a creare tra calciatore e ambiente. Si chiama “Schwoch treno ad alta velocità” ed è un documentario di un'ora in cui il protagonista è proprio lui, il centravanti-idolo, ritratto in campo e soprattutto durante scorci di vita privata, sul Golfo di Napoli e mentre palleggia con un'arancia.
“Io sono un bolzanino atipico: mio padre è abruzzese e mia madre è di Palermo – ha raccontato Schwoch in un'intervista al 'Corriere dell'Adige' – Per questo motivo, dico che l'ambientamento non c'è mai stato. Napoli mi piaceva e mi ritrovo nel modo di vivere del Sud. La gente mi ha accolto alla grande e, se devo dirla tutta, mi piace persino il modo in cui si guida lì. Mi trovo sempre benissimo, anche se con Bolzano non ha nulla in comune”.
Il legame, così forte e così profondo, si spezza appena dopo la festa promozione. A Pistoia Schwoch segna la rete che riporta matematicamente il Napoli in A, ma in estate se ne va. Non per sua scelta, ma perché il Torino offre 10 miliardi delle vecchie lire e per gli azzurri, sempre in difficoltà economiche, rifiutare è impossibile. Ed è lì che inizia la seconda parte della leggenda dell'altoatesino dai lunghi capelli, destinato negli anni a venire a scrivere la storia della cadetteria.
"TANTO GIÀ LO SO/SEGNA STEFAN SCHWOCH"
“Immagina, puoi”, ammiccava George Clooney in un famoso spot pubblicitario di qualche anno fa. Chissà quante volte s'è immaginato, Schwoch, a scorrazzare per i campi di Serie A. Magari gli sarebbe pure bastato lottare per una classifica media-bassa. E invece niente: volere non è sempre potere. Da quel 2000 in cui lascia Napoli per tornare al Nord, in un'altra nobile decaduta come il Toro, la B rimarrà il vestito confezionato su misura per lui. Vi diventerà un simbolo, una bandiera da sventolare orgogliosamente da una categoria che ha sempre fatto dei centravanti di provincia – Totò De Vitis, giusto per dirne uno – il proprio vessillo.
Altra promozione coi granata, la terza in carriera dopo quelle di Venezia e Napoli, questa volta non da protagonista assoluto. Ma di nuovo la A rimane una chimera. Lo chiama il Vicenza e Schwoch, sempre un po' a malincuore, accetta. Alta Serie B, ancora una volta. Nel 2001 il Lane è la Juventus della categoria, ma delude. L'anno successivo sfiora il colpo con Andrea Mandorlini, sgonfiandosi però nel finale. Poi inizia il declino, tra un cambio societario e una retrocessione, un ripescaggio e una salvezza all'ultimo respiro. Ma Schwoch c'è sempre. Si lega a Vicenza e al Vicenza, ci resta anche nei momenti più bui, ne diventa bandiera in un calcio in cui le bandiere iniziano progressivamente a scomparire.
Un idillio che va al di là dei risultati e anche dei goal. Che peraltro non sono pochi, se è vero che gli consentiranno di diventare re indiscusso della B: “Tanto già lo so/tanto già lo so/segna Stefan Schwoch”, canta la Sud del Menti, e molto spesso il presentimento si trasforma felicemente in realtà. Ma a rafforzare ulteriormente un amore già fortissimo è la scelta del gennaio 2005 di rifiutare il ritorno al Napoli,ripartito dalla C dopo il fallimento col nome di Napoli Soccer, ma appena preso in carico da Aurelio De Laurentiis e destinato a tornare ai massimi livelli.
“Era tutto definito, ero pronto a tornare – dice all'epoca il centravanti – Amo Napoli, ma amo ancor di più mio figlio. Quando gli ho detto che sarei tornato a Napoli ha pianto tutto il giorno, così ho fatto un passo indietro. Ringrazio il direttore Marino e mi scuso, ma non ho potuto dire di no a mio figlio”.
La scelta non paga a livello sportivo, come detto, perché il Napoli inizia una scalata inarrestabile, mentre il Vicenza di quegli anni è una squadra che vivacchia costantemente nella parte destra della classifica di B. Schwoch è la luce che illumina un tunnel buio. Lampeggia là davanti, segna un goal fantascientifico al Crotone dopo un controllo volante a seguire col tacco, punisce sei volte il Verona nel derby, con tre doppiette di cui una decisiva per espugnare il Bentegodi nel 2006. In poche parole: Schwoch diventa il Vicenza, il Vicenza diventa Schwoch. Nel novero dei più grandi della storia biancorossa c'è anche lui. Un rapporto intaccato solo parzialmente dalla poco felice esperienza da ds, nella quale viene accusato di essere una specie di yes man nei confronti dell'odiata proprietà capeggiata da Sergio Cassingena.
E il Napoli? Storia breve, ma intensa. Intensissima. Un lampo di gioia in un periodo tra i più difficili dell'intera storia partenopea. Lì Schwoch non è mai considerato tanto il re della Serie B, quanto l'uomo capace di ridare orgoglio e dignità a un popolo calcistico frustrato da anni di patimenti. Chi era troppo piccolo per vivere Maradona ha trovato in lui il primo beniamino da accarezzare e imitare. Con tanto di lacrime finali al momento della separazione. Come in “Benvenuti al Sud”.




