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Racconti Europei - Io, mio cugino e la Repubblica Ceca del '96

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Mio cugino tifa per l’Udinese. Sembra un dettaglio irrilevante, eppure non è così. C’entra sempre un cugino, un fratello, nella storia della vita di qualcuno. I parenti sono la memoria storica che cresce insieme a noi, anno dopo anno.

La sera del 30 giugno del 1996 mio cugino, che allora era un bambino di sette anni, guardando la partita a Wembley, mi disse: “Adesso entra Bierhoff, fa due goal e la Germania vince”. Oliver Bierhoff all’epoca era la stella dell’Udinese, appena sbarcato in Friuli dall’Ascoli, intuizione e visione celestiale del patron Pozzo; Oliver letale con la testa e sgraziato con i piedi, quella notte sotto al cielo inglese ne mise uno di fronte e uno di sinistro. Germania Campione d’Europa. Mio cugino lo aveva detto.

Un’altra cosa però, né mio cugino né nessun altro, l’avevano detta. Che la Repubblica Ceca avrebbe fatto battere il cuore a mezza Europa, in un’estate a metà degli anni ’90, quando i ghiaccioli costavano settecento lire e gli 883 ci facevano ballare. I cechi dai nomi sconosciuti, facce dell’est, capelli lunghi, ricci, lisci, arcate sopraccigliari spesse, modi bruschi. Quella squadra era invisibile, quotata a cento, forse mille, nemmeno una Cenerentola, perché Cenerentola il vestito buono per il ballo ce l’aveva. I cechi se lo cucirono addosso partita dopo partita.

Con il pallonetto di Poborsky contro il Portogallo, uno scavetto sgraziato ma efficace, ingresso in area dopo due rimpalli, la voglia che supera la tecnica, la parabola che sembra una pietra che cade dal cielo, il portiere portoghese che resta fermo a farsi superare dalla sfera. Con Pavel Nedved, che quella sera ancora non poteva saperlo: ma avrebbe vinto il Pallone d’Oro e fatto la storia della Lazio e, soprattutto, della Juventus. Con Smicer, Berger, il portierone Kouba, e quel modulo che passava da un 3-3-3-1 a un 4-4-2 a seconda dell’esigenza.

Nell’estate del 1996 capii una cosa che ancora non avevo compreso del calcio: che non è sempre il più forte a vincere, che l’albo d’oro non sempre racconta le storie più belle. Io, cresciuto a finali di Champions League marcate Milan, Barcellona, Juventus, e Mondiali con i tedeschi, i brasiliani, gli argentini e noi italiani a farla da padrone. La Repubblica Ceca mi insegnò che il calcio non è una scienza esatta, ma una variante impazzita, complessa da pronosticare. Mio cugino quella sera esultò per Bierhoff, perché era bianconero ed era felice di vedere il suo campione esultare, correndo impazzito e sfilandosi la maglia di fronte ai suoi tifosi.

A me crollò il mondo addosso perché la variante impazzita era caduta all’ultima curva. Perché quei nomi che faticavo a pronunciare, ma che poi avrei ricordato per l’eternità, non avrebbero alzato la coppa. La forma di quella magia però, che sbalordì tutti nella fine di giugno di quell’estate inglese, avrebbe vissuto per sempre. Ancora oggi, se qualcuno in una discussione nominerà Euro ’96, la prima cosa alla quale penserete sarà la Repubblica Ceca. Cameo a imperitura memoria della gentilezza brusca di una squadra irripetibile. Se non mi credete: provate a chiederlo a chi volete. Anche a mio cugino.

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