Che ereditare l’operato di Max Allegri fosse missione alquanto complicata, lo si sapeva dall’inizio. E chi non lo sapeva, evidentemente, deve aver qualche problema con la realtà. Un quinquennio d’oro, senza l’acuto della Champions League, ma con cinque scudetti, quattro Coppe Italia e due Supercoppe Italiane in bacheca. Numeri mostruosi che, meritocratricamente, hanno portato il livornese a diventare uno dei tecnici più vincenti della storia juventina.
I cicli hanno un inizio e una fine. Insomma, è la dura legge del calcio. E dopo aver premuto ininterrottamente sull’acceleratore, alle volte, cambiare diventa necessario. Ecco perché, seppur non su due piedi, alla Continassa hanno optato per una ventata fresca. Fisiologica.
Da qui, la scelta di puntare su un allenatore metodico come Maurizio Sarri. Uno a cui mai nessuno ha regalato niente e, che, partendo dalla Seconda Categoria, ha saputo costruire una carriera – in salita – ma produttiva: sfociata nella conquista dell’Europa League con il Chelsea.
Maurizio è amante dei numeri, degli appunti, del bel gioco e di molte altre cose che non sfiorano minimamente i pensieri di Max, meno ragionati ma al tempo stesso dannatamente vincenti. Perché, alla fine, alla Juve tutti vengono giudicati dallo stesso sostantivo: successo. Allegri, in lungo e in largo, l’ha ottenuto. Certo, badando al sodo e non all’estetica. Ma da quelle parti, appunto, conta esclusivamente mettere tutti dietro. Stop.
E con un percorso diametralmente opposto, ma ugualmente ambizioso, ora tocca a Sarri. Il quale con il predecessore presenta delle analogie inimmaginabili rispetto ai pronostici iniziali. I bianconeri non brillano ma, al netto delle ultime battute a vuoto, macinano punti. D’altro canto, i risultati non hanno bisogno di grosse spiegazioni: primato in campionato a pari merito con l’Inter, semifinale di Coppa Italia e ottavi di Champions League.
Sarri, profondendo grande saggezza, s’è presentato – al primo impegno ufficiale, contro il Parma – proponendo Khedira e Matuidi dall’inizio. Due fedelissimi della vecchia stagione, tutt’ora in voga. In parole povere, l’ex Chelsea ha rispettato, e sta rispettando, le caratteristiche della rosa.
Stesso modus operandi adottato da Allegri nel post Conte, quando decise di non snaturare la struttura tattica alimentando la bontà della difesa a tre. Salvo, a un certo punto della stagione, scommettere sul 4-3-1-2: con tanto di approdo a Berlino.
Giunta al dunque, La Signora vanta le carte in regola per cercare di fare la voce grossa in tutte le competizioni. Eppure, i mugugni non mancano. Sarà la Supercoppa persa contro la Lazio. Saranno le 4 sconfitte fin qui rimediate. Sarà che, probabilmente, Sarri non ha saputo ancora trovare le corde giuste per scaldare un ambiente che, da lui, si sarebbe aspettato più un punto di rottura anziché di continuità.
A Verona è scattato il primo grosso, grossissimo, campanello d’allarme. Un segnale poco incoraggiante in vista del prosieguo, con Sarri finito nel tritacarne mediatico più per il dopo gara ché per lo svolgimento (deludente) della stessa. Un po’ come accaduto a Napoli. Frasi, probabilmente, da custodire nel cassetto dei pensieri. In quanto, si sa, alla Juve le parole assumono un peso specifico incomparabile.
E, forse, il tecnico bianconero al momento paga proprio l’aspetto comunicativo. Sul quale, però, deve inevitabilmente lavorare. Quantomeno per costruirsi una corazza che gli consenta di giocarsi le sue carte.


