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GFX Van der Vaart

Dal Mondiale sfiorato, alle freccette: la seconda vita sportiva di Van der Vaart

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Da un caravan park di Beverwijk, al Soccer City Stadium di Johannesburg. Dalle partite giocate per strada, a quella più importante di tutte: la finale di un Campionato del Mondo.

Nel mezzo il trasferimento ad Amsterdam, dove diventerà il capitano più giovane dell’intera storia dell’Ajax, le sfide con i più grandi campioni della sua epoca, l’avventura in Germania con l’Amburgo e poi quella con addosso la maglia del più leggendario tra tutti i club: quella del Real Madrid.

Rafael van der Vaart ha vissuto una vita da nomade. D’altronde non può essere altrimenti se sei uno dei calciatori più forti della tua generazione, e se da bambino ti hanno insegnato ad essere un cittadino del mondo.

Cresciuto in una roulotte, ha imparato a convivere con ogni tipo di persona e soprattutto ogni tipo di cultura e per uno che poi ha intrapreso un viaggio come il suo, si è trattato di un vantaggio non da poco.

“Era così che viveva la mia famiglia. Mio padre era nato lì e viveva così. Forse non può essere considerato uno stile di vita normale, ma a me è sempre piaciuto. La mia infanzia è stata semplice, giocavo a pallone per strada e poi a dieci anni è arrivato l’Ajax. Ci sono rimasto per dodici anni”.

Per strada, facendosi spesso chiamare Romario durante le partitelle con gli amici, van der Vaart ha capito che è molto meglio dribblare l’avversario, piuttosto che cadere sull’asfalto e farsi male, e la cosa gli ha consentito di sviluppare una tecnica fuori dal comune, ma anche una velocità di pensiero che poi lo aiuterà a destreggiarsi in vari ruoli in campo.

Nasce come un giocatore offensivo, dalla grande confidenza con il goal, e quando ad inizio anni 2000 esplode giovanissimo con l’Ajax, in molti si affrettano ad individuare in lui il vero erede di Johan Cruyff.

Rafael van der Vaart Ajax Best Ever SeriesGetty Images

La prima copertina importante che gli verrà dedicata lo vedrà ritratto tra il ‘Profeta del Goal’ e Marco Van Basten, e sebbene poi in carriera non raggiungerà mai certe vette, la cosa lascia capire quanto forte potesse essere quel ragazzo capace di vincere nel 2003 il Golden Boy (“Era la prima volta che assegnavano il premio e se non sbaglio dopo di me si piazzarono Rooney e Cristiano Ronaldo…”).

I trionfi con i Lancieri, l’approdo in Nazionale maggiore a soli diciotto anni, i primi infortuni che ne limiteranno l’ascesa, la bella parentesi all’Amburgo e l’approdo al Real Madrid. Tutto questo prima di giocare la partita più importante della sua vita.

E’ l’11 luglio 2010 quando l’Olanda scende in campo a Johannesburg per sfidare la Spagna nella finale del Campionato del Mondo. I favori del pronostico sono tutti per le Furie Rosse di Del Bosque, ma gli Orange guidati da van Marwijk sono stati tra le più belle sorprese del torneo e soprattutto sono molto forti.

Kuyt, Van Persie, Sneijder e Robben, sono gli uomini di qualità ai quali sono affidate le speranze di un popolo intero che, dopo le finali perse nel 1974 e nel 1978, al terzo tentativo utile sperano finalmente di poter vedere la bandiera olandese issata sul tetto del mondo.

Van der Vaart, che della squadra è vice capitano e che ha giocato da titolare contro Danimarca, Giappone e Camerun, nel corso del torneo ha lasciato il suo posto a Robben che, smaltito un infortunio, si è preso una maglia nell’undici (e non poteva essere altrimenti) e non l’ha lasciata più.

Van der Vaart diventa il dodicesimo uomo, quello buono da schierare a partita in corso a centrocampo o un po’ più avanti, e infatti anche contro la Spagna si accomoda in panchina in attesa della grande occasione.

E’ forte ed ha esperienza da vendere, viene da un periodo non felicissimo al Real Madrid, ma affidargli il pallone vuol comunque dire ‘metterlo in banca’, o quasi. L’Olanda se la gioca ad armi pari, mette in campo tutto quello che ha e va anche ad un soffio dal trionfo ma Robben, proprio lui, è incappato in una delle serate più buie della sua carriera e, da solo davanti a Casillas, fallisce al 62’ la più clamorosa delle occasioni da goal. Quella che avrebbe potuto cambiare la storia calcistica tanto dell’Olanda, quanto della Spagna.

Si arriva dunque al 90’ con il risultato inchiodato sullo 0-0: si va ai tempi supplementari. I giocatori in campo sono esausti, alcuni danno l’impressione di non averne più, e con i ritmi inevitabilmente più bassi, van Marwijk decide, al 99’, di lanciare nella mischia van der Vaart al posto di de Jong.

Per l’ex ‘Nuovo Cruyff’, si tratta di una sorta di appuntamento con il destino. Sua madre Lolita è spagnola, di Chiclana de la Frontera, e nonna Dolores, che lo adora letteralmente, gli prepara sempre le tortillas di gamberetti che sono tipiche del posto e che a lui piacciono tanto.

Il primo tempo supplementare è equilibrato (un paio di occasioni per parte), ma all’inizio del secondo l’Olanda resta in inferiorità numerica per l’espulsione di John Heitinga.

“Noi puntavamo ad arrivare ai rigori - svelerà poi van der Vaart- A quel punto volevamo giocarcela così, anche se sapevamo di non essere poi bravissimi dal dischetto”.

Gli uomini di van Marwijk stringono i denti, si chiudono e resistono fino al 116’, quando nel giro di pochi istanti, cambiano le carriere e le vite di tutti i presenti in campo: cross dalla sinistra di Fernando Torres, van der Vaart, in ripiegamento difensivo e con la fascia di capitano al braccio, prova a spazzare al limite dell’area, ma sbaglia completamente l’intervento e di fatto serve Fabregas. E’ il pallone che il numero 10 della Spagna attendeva da sempre. Stoppa, osserva con il filo dell’occhio Iniesta, lo imbecca con un passaggio perfetto e il resto è storia. Uno come Don Andrés da lì non sbaglia.

Van der Vaart prova ad intervenire con una scivolata disperata, ma non c’è niente da fare: quando si rialza il pallone è già finito in rete e le speranze dell’Olanda sono già finite in frantumi.

Rafael Van der Vaart World Cup final 2010Getty

La Spagna per la prima volta nella sua storia si laurea campione del mondo, mentre ad una splendida generazione di giocatori Orange non resterà altro che arrendersi al destino e alla tradizione.

“Ci siamo andati così vicini, abbiamo avuto la nostra grande occasione - dirà van der Vaart - Potevamo farcela e sarebbe stato meraviglioso, perché l’Olanda non ha mai vinto un Mondiale. Quella finale persa mi fa ancora male”.

Van der Vaart giocherà altre ventisette partite in Nazionale, per un totale di centonove in tutto, ma nessun’altra si avvicinerà a quella con la Spagna in termini di importanza.

Lascerà il Real Madrid (“Alcuni diranno che ho fallito lì, ma se si vanno a vedere i numeri ho giocato abbastanza e segnato anche qualche goal”), farà ottime cose al Tottenham, tornerà all’Amburgo, vestirà la maglia del Betis e poi chiuderà la carriera in Olanda nel 2019 dopo le esperienze con Midtjylland ed Esbjerg.

Proprio il ritiro rappresenta per ogni sportivo uno dei momenti più difficili in assoluto ma per van der Vaart non è stato così. Non ha deciso né con la testa e né con il cuore, è stato il fisico a ‘pensare a tutto’.

“E’ giusto fermarsi adesso, sono venuto in Danimarca per giocare e non per fare riabilitazione. Volevo invecchiare giocando a calcio, ma sfortunatamente non sarà così e ora mi divertirò in modo diverso”.

A differenza di molti colleghi, van der Vaart non ha vissuto il ritiro come un punto di arrivo, bensì come un punto di partenza. Chiusa la vita da calciatore ne ha iniziate molte altre, compresa la più impronosticabile di tutte: quella nel mondo delle freccette.

Sono sempre state una sua grande passione e nel corso degli anni non ha mai smesso di esercitarsi. Nel 2013, quando militava ancora nell’Amburgo, ha avuto anche modo di condividere la pedana con Phil Taylor, il miglior giocatore di freccette di ogni tempo, e in quell’occasione il leggendario ‘The Power’, provò anche a convincerlo a trasferirsi nel suo amato Stoke City: partita vinta, ma tentativo andato a vuoto.

“A me piacciono le freccette - ha raccontato van der Vaart - In Olanda è uno sport molto popolare”.

L’addio al calcio giocato gli ha consentito di iniziare a fare sul serio, tanto che nel 2019 ha intrapreso la sua carriera da professionista. E’ entrato a far parte della British Darts Organization e nel maggio dello stesso anno ha fatto il suo esordio nel Denmark Open, un torneo che nel corso degli anni è stato vinto da campionissimi come Phil Taylor, Eric Bristow, Raymond van Barneveld, John Lowe e Gary Anderson.

Van der Vaart, che scherzosamente ha modificato il suo cognome in ‘van der Dart’, all’esordio si impone per 4-2 contro Thomas Anderson sorprendendo in tanti.

“Ha giocato in maniera solida - ha spiegato nell’occasione il commentatore del match - ha anche ottenuto un paio di punteggi oltre il 100. Se dovesse riuscire a vincere questo torneo, sarebbe una delle cose più sconvolgenti nell’intera storia del mondo delle freccette”.

Van der Vaart in realtà verrà eliminato nel turno successivo da Mogens Christensen, ma la cosa passerà quasi in secondo piano.

Proprio nel 2019, a quasi nove anni di distanza da Olanda-Spagna, il destino gli riserverà poi una seconda occasione per salire sul tetto del mondo. Non si tratta più di calcio, ma ovviamente di freccette, e la cornice non è quella di Sudafrica 2010, ma quella molto più lontana dai riflettori del Promi-Darts-WM. Suo compagno di squadra è Michael van Gerwen, il ‘Messi delle freccette’, e in palio c’è un titolo mondiale per celebrità.

Van der Vaart, che nel mondo delle freccette è ‘The Finisher’, è costretto ad arrendersi ancora una volta in finale ad un passo dal traguardo, ma questa volta la cosa fa meno male.

“Sono il più forte giocatore di freccette al mondo, tra i calciatori”.

Che si tratti di piedi o di mani, per van der Vaart è sempre fondamentalmente stata una questione di precisione. Una volta cercava l’incrocio dei pali con il suo magico sinistro, oggi cerca il 180… ma con la mano destra.

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