Pubblicità
Pubblicità
2006-07-04-germany-Michael-Ballack(C)Getty Images

Michael Ballack, Der Capitano: l'icona della Germania diventato 'eterno secondo'

Pubblicità

Archivio Storie

“Ich bin Ballack”, ‘Io sono Ballack’.

Una frase apparentemente normale, elementare, quotidiana. Un po’ come il celeberrimo “ich bin ein Berliner” di Kennedy. Una battuta di tutti i giorni, che messa in un determinato contesto diventa un qualcosa di storico. Una citazione da ricordare.

Ecco, “Ich bin Ballack” è stato pronunciato da Angela Merkel, Cancelliere della Germania dal 2005. E sì, si riferisce proprio a quel Ballack. Michael Ballack. Der Capitano. L’uomo che più di tutti con il suo talento è stato icona del calcio tedesco dei primi anni duemila. Quelli in cui un altro tedesco, Michael Schumacher, scriveva la storia della Formula 1 a bordo della Ferrari.

Ma quale concetto voleva trasmettere la Merkel con quel “Ich bin Ballack”? Il concetto di essere il Capitano di una squadra, quella di Governo. Insomma, un paragone (piuttosto telefonato, se pensiamo che era il giugno 2006) con quello che era il capitano della Mannschaft che avrebbe di lì a poco iniziato il Mondiale di casa. In Italia sanno tutti molto bene com’è andata a finire.

Michael Ballack 2002Getty

Ecco, in quegli anni Michael Ballack per la Germania era quello. Il termine di paragone. Uno dei talenti migliori mai prodotti, un centrocampista in grado di vedere prima il gioco, di arrivare sempre in zona gol, di vedere la porta come pochissimi altri al mondo, affidandosi alla sua tecnica sopraffina. Quello a cui l’ex CT della Germania Rudi Völler voleva che tutti i compagni dessero la palla. Il go-to-guy, come dicono negli Stati Uniti. Un giocatore straordinario, che dopo i trenta si è reinventato arretrando la sua posizione, giocando da regista, sfruttando le sue capacità di visione. Fino al ritiro a 36 anni. Ha chiuso dopo aver vinto tutto in Germania e in Inghilterra. Eppure, di lui si ricordano più le sconfitte.

‘Eterno secondo’, lo soprannominano i più maliziosi. In effetti, il palmarès è ricco, ma i secondi posti e le occasioni mancate sono ancora di più. Un esempio? Non ha mai vinto la Champions League, nonostante abbia giocato due finali con due squadre diverse. Non ha mai vinto nulla con la nazionale, eppure è arrivato per due volte a giocarsi la finale - Mondiale 2002 e Euro 2008. E poi, ovviamente, il Bayer Leverkusen. Il suo Bayer Leverkusen. Quello che in Germania chiamano ‘Vizekusen’, in cui ‘vize’ sta per vice, il secondo, che in Inghilterra chiamano ‘Neverkusen’, con quel ‘Never’, mai, che spiega meglio di ogni altra cosa la recente storia del club, sempre arrivato ad un passo dalle vittorie, prima di fermarsi.

Ballack sa cosa vuol dire. Nato nel 1976, a Görlitz, sul confine con la Polonia. Piena ex DDR. Non è mai stato un ‘ragazzo prodigio’. Ha fatto la trafila delle giovanili del Chemnitzer - che fino alla riunificazione si chiamava Karl-Marx-Stadt. Ha iniziato a giocare tra 2. Bundesliga e terza serie, che allora era la Regionalliga. La prima chiamata è stata quella di Otto Rehhagel al Kaiserslautern, in Bundesliga. Quella giusta. A 22 anni, Ballack dal nulla si è ritrovato ad essere campione di Germania con una squadra neo-promossa. Un sogno. Era solo un comprimario, ma l’anno successivo sarebbe diventato un titolare. Rubando l’occhio in patria e in Europa.

L’approdo successivo nel 1999 è stato quello al Bayer Leverkusen, una squadra in rampa di lancio che puntava alla prima vittoria della propria storia in Bundesliga. Una squadra dalla forte anima tedesca con Bernd Schneider, Oliver Neuville e Ulf Kirsten, ma allo stesso tempo capace di pescare anche in Sudamerica: Emerson, il ‘Puma’, e Zé Roberto ne sono stati due grandissimi esempi. Erano loro a comporre con Ballack uno dei reparti di centrocampo più forti della Bundesliga 1999/2000. E non era un caso che all’ultima giornata, in trasferta sul campo dell’Unterhaching già abbondantemente salvo, al Bayer bastasse un punto.

Michael Ballack Bayer 04 Leverkusen 2002getty Images

È qui che inizia la storia di Ballack come ‘perdente di lusso’. In un sobborgo di Monaco, piena periferia. Una deviazione sciagurata all’indietro su un cross apparentemente innocuo per anticipare il suo portiere. Un tentativo di salvare una palla messa dentro l’area senza pretese. C’erano infiniti modi per gestire quella situazione. Il ragazzo di Görlitz ha scelto il peggiore. Autogoal. Il resto della partita è praticamente un assedio, ma il portiere Tremmel aveva deciso di parare ogni cosa. 2-0. A pochi km di distanza, il Bayern aveva passeggiato in casa con il Werder Brema, operando il sorpasso. Vincendo un titolo ormai insperato.

Nel 2002 è andata persino peggio, con la sciagurata stagione passata alla storia per le due finali perse - in Champions League contro il Real Madrid dei Galacticos, in DFB-Pokal contro lo Schalke 04 - e ovviamente il secondo posto in campionato, dietro al Borussia Dortmund dopo essere stato in testa per la maggior parte del girone di ritorno. Vizekusen. O Neverkusen, vedete voi. In più, nello stesso anno, la sconfitta in finale Mondiale, che ha guardato dalla tribuna per squalifica.

Ballack si era affermato come il miglior centrocampista di Germania, il giocatore più forte di una generazione che è sempre rimasta inespressa, prima di cedere al testimone a quella che avrebbe riportato la Coppa del Mondo in terra teutonica nel 2014. E così nel 2002, con la ferita ancora aperta, aveva lasciato la BayArena per trasferirsi al Bayern Monaco. L’approdo naturale. Il top.

A Monaco Ballack ha ritrovato il gusto della vittoria, affermandosi come uno dei centrocampisti più forti e completi d’Europa. Un leader con la fascia di capitano al braccio. Dal 2004, per volere dell’allora CT Jürgen Klinsmann (e non solo), anche in nazionale. Eppure a Monaco non c’è un gran ricordo di Ballack. Nonostante in quattro anni abbia vinto tre volte il double domestico, abbia portato la fascia, propiziato un centinaio di goal in 144 partite. L’addio non è stato ben digerito. A parametro zero, con l’accusa di non impegnarsi abbastanza da parte di nientemeno che Kaiser Franz Beckenbauer. Il peso delle parole dipende da chi le dice.

Michael Ballack FC Bayern Marco Schmit Borussia Neunkirchen DFB Pokal 08302003Getty Images

Al Chelsea, la stessa storia. 2008, altro anno maledetto. Iniziato con le sconfitte nelle coppe nazionali, culminato nella sconfitta nella finale di Champions League per mano del Manchester United. L’ha accarezzata, quella coppa, quando ha visto John Terry andare verso il dischetto per il rigore decisivo. Poi la scivolata del capitano dei Blues ha cambiato la storia. Quella del Chelsea e la sua. Poteva diventare vincente, non ci è riuscito. Nella stessa estate ha anche perso la finale degli Europei. Da capitano, ancora più dolorosa.

Sperava che la corsa del 2009 fosse quella buona, fino a quando ha incontrato il Barcellona e l’arbitro norvegese Ovrebo, in una partita memorabile. La sua protesta furiosa nel finale è diventata il simbolo della rabbia del Chelsea. Ballack si è tolto la soddisfazione di vincere la Premier League nel 2010 con Ancelotti. Nello stesso anno, con la carriera ormai avviata sul viale del tramonto, è tornato al Bayer Leverkusen, con la speranza di riuscire per un’ultima volta ad arrivare al tanto agognato titolo. E nonostante il Bayern di van Gaal stesse andando a rotoli, a vincere non sono state le ‘Aspirine’, ma il giovanissimo Borussia Dortmund di Jürgen Klopp. Riecco i fantasmi. Sesto secondo posto in carriera.

Il senso di incompiutezza che Ballack si porta dietro è tangibile. E anche la sua ‘chiusura’ con la Nazionale non è stata degna del suo talento. Doveva far parte della rosa della Germania in Sud Africa, al Mondiale, ma un infortunio gliel’ha proibito. Philipp Lahm si è preso la fascia e ha persino detto che voleva tenersela, in barba al vecchio capitano. Eppure Ballack era passato dal ritiro della Germania proprio in quei giorni. Non sarebbe mai più stato convocato, anche per l’evidente calo fisico. Nessuno lo ha difeso. Lo stesso Lahm ha poi alzato la coppa in Brasile da capitano quattro anni dopo.

Di quell’icona, insomma, è rimasto poco. Apparizioni in tv come esperto, uno dei più ascoltati. Quasi tripla cifra di presenze e 42 goal con la Germania. I trionfi al Chelsea e al Bayern. Gli anni con il Leverkusen, una delle squadre più divertenti di sempre. I suoi goal. Il miracolo Kaiserslautern. Qualcuno in carriera gli ha fatto pesare anche il fatto di essere nato nella Germania Est e lo ha reso una colpa. La risposta che darebbe è probabilmente la stessa di Angela Merkel: “Ich bin Ballack”. Io sono Ballack. Nel bene e nel male.

Pubblicità

ENJOYED THIS STORY?

Add GOAL.com as a preferred source on Google to see more of our reporting

0