
E’ il 9 dicembre 2009 e la Fiorentina è impegnata in un’ultima partita della fase a gironi della Champions League che mette in palio punti pesantissimi. In caso di vittoria infatti, la squadra allenata da Cesare Prandelli si garantirebbe il primo posto nel Gruppo E e la possibilità quindi di veder farsi più in discesa la strada nella fase ad eliminazione diretta.
I viola, nel corso delle gare precedenti, hanno ampiamente dimostrato di potersela giocare con tutti, ma questa volta sono chiamati ad un’autentica impresa: per fare bottino pieno occorre battere il Liverpool e tra l’altro ad Anfield.
Manca meno di mezz’ora al triplice fischio finale ed i gigliati sono sotto 1-0, quando Comotto recupera un pallone e cerca in avanti Santana: quest'ultimo finge uno scatto e con un gran velo favorisce Gilardino che, al limite dell’area, stoppa la sfera e premia l’inserimento di Martin Jorgensen che, con un gran diagonale di sinistro, batte Diego Cavalieri per l’1-1.
Per il centrocampista danese si tratta del primo goal in assoluto in Champions League. Per la Fiorentina si tratta di una rete che riapre una partita che poi riuscirà a vincere grazie ad un guizzo di Gilardino in pieno recupero. I viola in un colpo solo si assicurano un successo prestigioso e il primo posto nel girone oltre che nella storia, visto che in precedenza solo Genoa e Roma, tra le squadre italiane, erano riuscite ad espugnare il mitico Anfield.
Dietro quella marcatura di Jorgensen c’è però molto di più di una notte magica. C’è un lungo cammino fatto di tante cose: gli anni in Danimarca, l’arrivo giovanissimo in Italia, un’operazione di mercato che ha avuto del clamoroso ed anche la malattia.
E’ il 1997 quando l’Udinese scova nell’Aarhus un ragazzo del quale si sa pochissimo, ma che fin da subito dimostrerà di avere un’intelligenza non solo calcistica fuori dal comune, che lo aiuterà ad adattarsi in tempi rapidissimi al calcio italiano. Quella nella quale approda è una squadra molto forte, che gioca a memoria e che è guidata in panchina da Alberto Zaccheroni.

I friulani, che già nella stagione precedente si erano classificati quinti in campionato, non solo riescono a confermarsi a livelli altissimi, ma si spingono anche oltre piazzandosi al terzo posto. Quella bianconera viene considerata la squadra rivelazione dell’anno, ma è figlia di un lavoro straordinario che l’ha portata a poter contare su elementi, come Helveg, Amoroso, Locatelli, Poggi, Giannichedda e Bierhoff, solo per citarne alcuni. Tutta gente che poi farà benissimo anche in altri contesti.
“Un osservatore fece il mio nome a Pietro Lo Monaco - ha raccontato anni dopo Jorgensen a ‘La Gazzetta dello Sport' - Venne in Danimarca e incontrai anche Gino Pozzo. Mi convinsero a trasferirmi. Ricordo tutto. L’arrivo, il primo giorno di ritiro, gli allenamenti. Helveg mi ha subito insegnato la lingua e fatto assaggiare il cibo italiano”.
Arrivato da giovane talento semisconosciuto, Jorgensen lascerà Udine solo sette anni più tardi, quando ormai si sarà consacrato come uno dei giocatori più completi della Serie A. Ad attenderlo ci sarà la Fiorentina che intanto, messo alle spalle l’incubo del fallimento e le annate in C2 e B, è alla ricerca di elementi che possano riportarla subito lì dove, per storia e blasone, meriterebbe di stare.
Il club viola individua proprio nel danese uno dei calciatori dai quali far partire un nuovo progetto e lo acquista quindi con la formula della compartecipazione, già pensando ad un futuro riscatto. In realtà però, la squadra, che pure era partita con ambizioni importanti e spinta dall’entusiasmo di una piazza che era tornata ad assaporare il gusto del calcio che conta, incappa in una stagione complicatissima che si chiuderà con una drammatica salvezza raggiunta all’ultima giornata.
Sono serviti tre diversi allenatori (Mondonico, Buso e Zoff) e grandi investimenti per racimolare i 42 punti necessari per la permanenza in Serie A. L’annata è stata insomma di quelle da dimenticare in fretta e tra i giocatori che più hanno deluso c’è proprio Jorgensen.
Il danese per mesi offre prestazioni condite da pochi alti e molti bassi. Di fatto quello visto nel campionato 2004/2005 è l’ombra del campione ammirato ad Udine. In meno di dodici mesi passa dall’essere uno dei giocatori potenzialmente più ambiti sul mercato all’essere semplicemente indesiderato e la cosa sarà chiara quando, per risolvere la comproprietà, si arriverà alle buste.
L’Udinese nella sua inserirà un foglio sul quale c’è scritto 0, la Fiorentina farà poco di più offrendo 500 euro. Cinquecento euro per un giocatore con otto anni di Serie A alle spalle. Cinquecento euro per un nazionale danese. I migliori cinquecento euro mai spesi dalla Fiorentina nel corso della sua storia.
“Non è nel mio carattere abbattermi - svelerà a ‘La Nazione’ - Dentro di me sapevo di essere un bravo giocatore e ho pensato che lo avrei dimostrato”.
Per una cifra irrisoria, all’epoca si disse che un biglietto per la finale dei Mondiali che si sarebbero giocati nel 2006 sarebbe costato cento euro in più, la Fiorentina non compra un giocatore, ne compra almeno sei. Perché negli anni successivi, con Prandelli alla guida della compagine gigliata, Jorgensen si dimostrerà capace di poter giocare, e sempre ad altissimi livelli, da terzino, da esterno di fascia a centrocampo o nel tridente offensivo, da mediano e da trequartista. Tutto questo indipendentemente dal fatto che venga schierato a destra o a sinistra. Un calciatore totale, un ‘jolly’ nel senso più puro del termine (forse il più completo mai visto su un campo di Serie A), che nel corso dei successivi cinque anni vissuti da protagonista assoluto a Firenze, si destreggerà ovunque, fuorché tra i pali.

A tutto ciò va aggiunta un’altra caratteristica non da poco: Jorgensen è infatti un uomo fondamentalmente di poche parole fuori dal rettangolo di gioco, ma è anche un professionista esemplare, oltre che un leader nello spogliatoio. Se per intelligenza tattica non fa mai la cosa sbagliata, quando si tratta di farsi valere nel gruppo lo fa con la sola forza di uno sguardo. E’ il capo silenzioso della squadra, quello che detta le regole anche a tavola.
“Semplicemente cercano la mia conferma nello sguardo - ha raccontato a ‘La Nazione’ - Ma se io non ci sono mangiano lo stesso”.
La forza di Jorgensen è stata quella di capire che se sei forte in un solo ruolo puoi fare meglio dell’avversario solo se sei più bravo o se stai meglio, ma che se invece sai giocare in più zone del campo, hai più possibilità di incidere. Ha inoltre compreso che lì dove non arrivano la tecnica e le qualità che il ‘Dio del calcio’ ti ha donato, puoi arrivarci con la professionalità e la perseveranza. Insomma non si deve mai mollare, ma sempre cercare di risalire e di migliorare.
Se l’essere duttile gli ha consentito di fare una carriera importante, l’essere tenace gli ha invece permesso di superare il momento più difficile della sua carriera. E’ infatti il 2008 quando la malattia lo allontana per mesi dal calcio giocato. Contrae una forte influenza con incremento della cefalea, una forma virale che interessa le meningi, che a molti fa pensare che non solo difficilmente potrà tornare a giocare sui suoi livelli, ma che addirittura la sua carriera possa essere compromessa.
Jorgensen invece si dimostra più forte di tutto, supera anche un altro importante problema di salute che, tra le varie conseguenza, porta al gonfiarsi di alcuni linfonodi, e prima segna al ritorno in campo un goal che consente alla Fiorentina di qualificarsi per la Champions League, poi si ritaglia una notte da assoluto protagonista nella storica notte di Anfield.
“Alla Fiorentina ho avuto tre mesi bui - ha ricordato a ‘La Gazzetta dello Sport’ - Non riuscivo a giocare, ad allenarmi, faticavo a muovermi. Mi hanno ricoverato all’ospedale di Careggi per alcune settimane, nessuno capiva cosa avessi. Ho pensato di smettere. Andare in bici mi ha aiutato a riprendermi. Era l’inverno del 2009, io uscivo. Il freddo non mi spaventava”.
Quella partita contro il Liverpool rappresenterà molto di più del momento più alto della sua lunga avventura in viola. Rappresenterà una sorta di rinascita. La rinascita di un campione che non meritava di far decidere alla malattia se fosse arrivato il momento di appendere gli scarpini al chiodo.
“A fine partita con Kroldrup, Vargas e un dirigente girammo tutto lo stadio alla ricerca di una birra fredda. Ci ritrovammo all’esterno del box riservato al presidente, non volevano farci entrare perché eravamo in tuta e senza pass. Alla fine li abbiamo convinti e ci hanno portato anche le birre".
Quando nel gennaio del 2010 Jorgensen chiederà di lasciare la Fiorentina per tornare in Danimarca, lo farà dopo essersi guadagnato il rispetto di Firenze ed un posto tra i più forti giocatori della storia recente gigliata. Ripartirà da lì dove tutto era iniziato, ovvero dall’Aarhus, e lo farà per guadagnarsi un posto per quei Mondiali del 2010 ai quali poi effettivamente prenderà parte.
Quando si ritirerà nel 2014, lo farà dopo aver collezionato 102 presenze con la rappresentativa maggiore del suo Paese e da autentica leggenda del calcio danese.
Gli anni di Firenze intanto sono già lontani, ma anche il calcio, per il quale ha dato tutto e dal quale, soprattutto in termini di trofei, ha ricevuto meno di quanto avrebbe potuto, inizia a diventare un qualcosa di sempre più marginale nei suoi pensieri.
Deciderà di allontanarsi da un mondo così caotico e che viaggia a mille chilometri all’ora e si dedicherà ad una sua vecchia passione. Ad un qualcosa che viaggia a velocità certamente più ridotte: gli autobus.
“Porto avanti l’azienda di famiglia - ha raccontato nel maggio del 2021 a ‘La Gazzetta dello Sport’ - Il mio bisnonno ha fondato De Graa Busser nel 1920, ora tocca a me. Guidare pullman mi ha sempre divertito. Sei più grande degli altri, in strada ti lasciano passare. Era più semplice che giocare. Ma io volevo diventare un calciatore".
Quando nel 2014 la Fiorentina si è recata in Danimarca per affrontare l’Esbjerg nei sedicesimi di finale di Europa League, le strade della compagine viola e di Jorgensen sono tornate a ricongiungersi, ma in modo insolito. Svestiti i panni del campione infatti, ha vestito quelli dell’autista, prelevando i viola all’aeroporto, portandoli in hotel e mettendosi a totale disposizione.
Quello che porta dal prato verde all’asfalto delle autostrade non è propriamente un tragitto breve, soprattutto ai giorni di oggi, nei quali basta molto meno di quello che ha fatto Jorgensen per diventare una superstar. Lui però quel tragitto l’ha compiuto e anche nel suo ultimo incontro ‘europeo’ con la Fiorentina ha fatto ciò che gli è sempre riuscito meglio: ovvero la guida. Per una volta non su un rettangolo verde o in uno spogliatoio, ma per le strade di Esbjerg.