
Il telefono della Rádio Jovem Pan di San Paolo si mette a squillare. Una volta, due volte, tre volte. Dall'altra parte, una voce conosciuta: quella di Ricardo Teixeira, presidente della CBF, la Confederazione brasiliana. Chiede di parlare con Milton Neves, uno dei presentatori di punta dell'emittente. E appena questi prende in mano la cornetta, gli spara una domanda a bruciapelo: “Chi deve essere il prossimo commissario tecnico della Seleção?”. Sul tavolo, due nomi: Vanderlei Luxemburgo e Luiz Felipe Scolari. Milton non lo sopporta, Luxa. E dunque non può che propendere per Felipão. Venendo ascoltato su tutta la linea.
La storia del Brasile campione del mondo nel 2002, e soprattutto del suo condottiero, inizia così: con una serie di telefonate. Milton Neves non è l'unico giornalista consultato da Teixeira. Tra verità e leggenda, essendo Miltão un personaggio particolarmente bizzarro, si racconta che in precedenza il boss della CBF ne abbia già ascoltati altri sei. Ottenendo tre voti per Luxemburgo e altrettanti per Scolari. Il settimo è quello decisivo. E così Scolari, nel giugno del 2001, diventa per la prima volta l'allenatore della Seleção. Sostituisce Emerson Leão, che a sua volta aveva sostituito proprio Luxemburgo, che a sua volta aveva preso il posto di Mario Zagallo, finalista a Francia '98. Il tutto, in soli tre anni. Un tourbillon apparentemente senza fine.
Ai tempi non tutti sono convinti che Scolari, origini venete e cittadinanza italiana, sia l'uomo giusto per il Brasile. Forse perché hanno saputo che, quando giocava nella difesa del Caxias, nel Rio Grande do Sul, come secondo lavoro faceva il professore di educazione fisica. Uno dei suoi alunni era tale Adenor Bachi. Ovvero Tite, l'attuale selezionatore verdeoro.
“Lo conobbi quando ero insegnante di educazione fisica, giocatore di calcio e allenatore della squadra della scuola – ha raccontato qualche anno fa a 'Repubblica' – Lui giocava nella squadra avversaria. Giocavano molto bene, le nostre squadre s'incontrarono due volte. Dopo aver superato i test e le prove necessarie diventò allenatore della squadra in cui aveva giocato, e fece molto bene. Non è vero che il soprannome glielo abbia dato io”.
Da allenatore, al momento della nomina da parte del Brasile, il curriculum di Felipão è già piuttosto nutrito. Una decina d'anni prima è riuscito nell'impresa di alzare la Copa do Brasil col piccolo Criciúma, la prima delle quattro conquistate in carriera (record). Un'impresa che lo ha innalzato al livello dei miti. Il legame con il club catarinense è rimasto così stretto che nel 2014, alla guida del Grêmio, si è rammaricato pubblicamente per un 3-0 che, in sostanza, condannava la sua ex squadra alla retrocessione in Serie B.
L'avversario nella doppia finale di quella Copa do Brasil del 1991, ironia della sorte, è proprio il Grêmio. Il club in cui diventerà davvero grande. E con il quale trionferà nella Copa Libertadores del 1995, impresa bissata quattro anni dopo sulla panchina del Palmeiras. Gli rimarrà per sempre il rammarico di non aver vinto una Copa Intercontinentale, persa in entrambe le occasioni. La prima, in realtà, rischia di non viverla nemmeno. Il suo Grêmio sta andando così male in campionato che Scolari rassegna le dimissioni proprio nei giorni precedenti il viaggio a Toyko. Dopo una sconfitta in casa della Portuguesa, è irremovibile.
“Tentai di fargli cambiare idea, gli dissi che era pazzo, che dovevamo giocare l'Intercontinentale – ha ricordato Luiz Carlos Silveira Martins, il presidente di quel Grêmio – ma non c'era verso. Così gli chiesi solo di tornare in aereo con noi a Porto Alegre, dove avremmo discusso della cosa. In aereo venni avvicinato dal comandante del volo, gremista. Prese Felipão e lo portò in cabina per presentarlo al pilota. Li lasciai lì, lui trovò la forza di distrarsi assieme a un semplice tifoso. E in quel momento capì che non aveva senso dimettersi. Non tornammo più sull'argomento”.
Prima dei trionfi con Grêmio e Palmeiras, però, c'era stato il periodo esotico. Già alla metà degli anni Ottanta, quando ha appena iniziato la professione, Scolari è uno dei primi allenatori brasiliani a tentare fortuna in Medio Oriente. Nel 1984 lo chiama l'Al Shabab, formazione araba. Lui e Murtosa, il suo assistente storico. E Felipão accetta. Perché il colore dei soldi, a quei tempi, è troppo vivido per uno che fino a poco prima faceva l'insegnante di educazione fisica.
“Ci chiama il principe, ci fa un'offerta, aumenta il mio stipendio e quello di Murtosa, aumenta i bonus. Abbiamo firmato subito, senza sapere nemmeno cosa ci fosse scritto nel contratto, perché il documento era in arabo”.
Scolari è un cittadino del mondo. Sul finire degli anni Novanta accetta di andare al Jubilo Iwata, in Giappone. In Kuwait, invece, guida anche il Qadsia e la nazionale locale. Nel 1990 vince la Coppa delle nazioni del Golfo. Ma non sono anni semplici. Prima di una partita importante del Qadsia, Scolari carica i giocatori parlando di “battaglia” e “guerra”. Una gaffe, perché molti di loro una guerra sulla propria pelle l'hanno vissuta davvero. “Ho chiesto scusa, ci siamo abbracciati e abbiamo vinto la Coppa dell'Emiro”. Nemmeno Murtosa è particolarmente felice. Gli manca il Brasile, in Kuwait proprio non riesce ad ambientarsi. Così Scolari lo chiama nella propria camera d'albergo e svuota la trapunta del letto in cui ha raggruppato gran parte dello stipendio: “Allora, vuoi andare via o rifacciamo un'altra trapunta così?”. Resteranno entrambi per un altro anno, naturalmente.
È questo il commissario tecnico scelto dal Brasile. Un uomo con la scorza dura, ma senza la paura di scoprire cosa si cela fuori da Rio e San Paolo. Quando accetta la Seleção, trova un ambiente allo sbaraglio. I tre allenatori cambiati nello spazio di pochi anni, la stella Ronaldo costantemente fuori uso, una sensazione generale di abbandono. E l'incredibile eliminazione dalla Copa America 2001 per mano dell'Honduras non contribuisce certo a farlo entrare nel cuore della gente. Però Felipão ci crede. Col Giappone e la Corea del Sud alle porte, inizia a costruire pezzo per pezzo la propria creatura. Mentre l'Italia incrocia (inutilmente) le dita affinché il Trap chiami Roberto Baggio, lui ignora Romario. E non si fa commuovere nemmeno dalle lacrime pubbliche del Baixinho. Nasce la “família Scolari”, un gruppo coeso, compatto, formato da uomini di fiducia.
“Nella Confederations Cup del 2001 non avevamo nemmeno una squadra formata – ricorda l'ex Barcellona Edmilson – Di quella rosa, solo 4 sarebbero poi andati al Mondiale. Ma Felipão ha questo dono, questo talento di unificare un determinato gruppo di giocatori. Che magari non sono i migliori al mondo, però in quel momento lo sono”.
In Asia, Scolari si affida alla “tripla erre”. Davanti il recuperato Ronaldo, dietro di lui Rivaldo e Ronaldinho. Più Marcos, il portiere che non avrebbe nemmeno voluto giocare. E Cafu, il capitano. E Lucio in difesa. E tanti altri. A guidarli, Felipão. Che entra nella storia del Brasile conquistando il pentacampeonato, il quinto titolo mondiale. Ancor oggi rimane l'ultimo in ordine di tempo. Un trionfo macchiato parzialmente 12 anni dopo dalla peggior sconfitta di sempre del Brasile, l'1-7 contro la Germania.
Getty ImagesIn quel 2002, Scolari lo conoscono finalmente tutti. Anche in Italia. A un certo punto, all'indomani del flop nippo-coreano e delle marachelle di Byron Moreno, nasce una pazza idea: affidare a lui le redini azzurre al posto di Giovanni Trapattoni. Quando chiedono un'opinione a Carletto Mazzone, l'allenatore del Brescia risponde in maniera colorita:
“Ma se ai Mondiali era soltanto l'accompagnatore della squadra!”.
Non è esattamente così. E anche in Portogallo l'hanno capito. Per la ricostruzione, e per preparare gli Europei in programma da ospitare nel 2004, a Lisbona pensano a lui. E Scolari accetta. Sembra un salto nel vuoto, ma il presidente della FPF assicura che “Felipão non è un paracadutista: ha una concezione del calcio perfettamente applicabile alla nostra squadra”. Il nuovo ct convoca per la prima volta un giovanissimo Cristiano Ronaldo, che anni dopo definirà “dedizione pura e autentica”, uno che “segna una volta ogni due occasioni”. Arriva a un passo dal sogno del bis. Glielo frantumerà sotto gli occhi la Grecia di Otto Rehhagel.
“In quegli anni abbiamo piantato un seme per i risultati che il Portogallo avrebbe ottenuto in futuro – ha detto Scolari al 'Diario de Notícias' – In Portogallo hanno capito, tutto il paese ha capito. Abbiamo perso quella finale, ma grazie a noi è stata data la spinta decisiva per gli anni seguenti”.
Quando nel 2008 si lega al Chelsea, Scolari giura: “Non ho paura”. Due anni prima stava per accettare la nazionale inglese, prima del dietrofront: “Volevano che firmassi prima dei Mondiali: come avrei potuto essere l'allenatore del Portogallo e affrontare l'Inghilterra?”. L'avventura londinese non va come sperato: si attira ben presto l'antipatia delle WAGS quando consiglia i giocatori di “trovarsi una buona moglie” e nel febbraio dell'anno successivo viene già esonerato dopo un pareggio contro l'Hull City. Gli resta l'affetto di Ashley Cole, che confessa di averlo trovato “simpatico” e di “aver imparato a calciare meglio col destro” grazie a lui. Soprattutto, gli resta nel cuore anche qualche episodio difficile da replicare fuori dall'Inghilterra.
“Una volta abbiamo giocato contro il Manchester United – ha ricordato alla rivista 'PLACAR' – Dopo la partita, sono andato da Ferguson e gli ho portato un vino italiano molto buono. E lui mi ha detto: 'Mourinho è rimasto qui tre anni e non mi ha mai portato un buon vino'. Sono cose che ti rimangono dentro. I momenti più belli sono i post partita. Non c'è rivalità”.
Gli anni successivi sono diversi e variopinti. C'è il Bunyodkor, in Uzbekistan, dove ritrova Rivaldo. C'è il Guangzhou Evergrande, con sette trofei che lo fanno diventare il tecnico brasiliano più vincente in Cina. E in mezzo c'è il Brasile. Di nuovo. Senza giornalisti a fare da intermediari, questa volta. Una volta rotto con Mano Menezes, la CBF lo contatta e lo riporta in sella dopo dodici anni. "Il sogno mio e di Murtosa è quello di conquistare un altro titolo con la Seleção", confessa. Di nuovo, come in Portogallo, Felipão ha di fronte a sé una sfida delicatissima: giocare e vincere una competizione in casa.
Non sa, Scolari, che sta per andare incontro all'incubo più terrificante della propria carriera. Dopo aver vinto la Confederations Cup nel 2013, il Brasile si presenta da favorito ai Mondiali casalinghi. Ma l'infortunio di Neymar fa crollare il castello di carte. Brasile 1, Germania 7. Il Mineirazo, 54 anni dopo il Maracanazo. Un disastro su tutta la linea che azzera il credito di dodici anni prima. “Di chi sono state le scelte? Mie. Per cui il responsabile sono io e la colpa è mia”, fa ammenda il tecnico dopo la partita. Il giorno dopo, sulla prima pagina dell'Estado do São Paulo, c'è il suo volto nascosto tra le mani. La separazione è inevitabile.
“Se ho dimenticato quella partita? Così come non si dimenticano le vittorie, non si dimenticano le sconfitte – ha detto a 'Repubblica' – Quello che si deve fare è trarre dalle sconfitte una impalcatura per costruire una nuova fase della propria vita. Chi non ha mai perso non vincerà mai. La gente lo sa. Quello è stato un risultato insolito, diverso, che però mi ha dato la possibilità di provare a superare me stesso e trovare altri modi per raggiungere obiettivi mai considerati prima. Così sono partito per la Cina con il mio staff e con il Guangzhou Evergrande abbiamo vinto sette titoli su undici”.
Sono gli ultimi battiti di una carriera ad alto livello, nella quale ha allenato la bellezza di sette Palloni d'Oro: Ronaldo, Ronaldinho, Rivaldo, Kaká, Cristiano Ronaldo, Romario e Figo (un record). Nel 2018 Scolari fa in tempo a ricostruirsi una credibilità al Palmeiras, portato dalle secche di metà classifica alla conquista del campionato. Va al Cruzeiro, nobile decaduta in difficoltà in Serie B. Ha appena rischiato di scrivere la storia, sfiorando la Libertadores con l'Athletico Paranaense. In mezzo a tutto questo è stato di nuovo al Grêmio, dove lo hanno esonerato dopo averlo inserito nella Hall of Fame del club. Il segnale che anche le leggende, a un certo punto, possono essere lasciate da parte.
