GOALPer qualcuno, vedi Gary Lineker, il calcio è quello sport in cui 22 uomini rincorrono un pallone e alla fine vincono i tedeschi. Per qualcuno rappresenta la vita stessa. Per altri è la cosa più importante, semplicemente, più di affetti, carriera, futuro, orma da lasciare nel mondo. E' talmente soggettivo in ogni sua forma, che non basterebbero migliaia di volumi, cartacei, o svariati GB di pdf per definirlo. C'è a chi piace la tattica e chi la marea di goal. Chi la tranquillità del pareggio e chi la follia degli eventi anormali all'interno della gara. Ogni tanto però c'è qualcosa che accomuna tutti, o quasi, frecce che convergono nella stessa direzione per dire che sì, ricordano quell'evento con grande piacere, divertente, esaltante, allo stesso tempo cupo e gioioso. Talmente assurdo da piacere alla massa.
Chiunque ricordi Lecce-Udinese del 2004/2005 ha qualcosa da dire. Perché fu gara di altri tempi, intesi come decenni e decenni prima, non la definizione che un ragazzo del nuovo millennio potrebbe dire nei confronti di quella gara. Un match veramente del passato, del secondo millennio insomma, per quantità di reti e stranezze che ora farebbero detonare i social, mandando in blackout i server californiani e dell'East Coast statunitense
Autunno del 2004, Lecce. Coppa Italia, 20 novembre ore 15. I giallorossi ospitano l'Udinese, per l'andata degli ottavi di finale. Una competizione strana, quella, forse mai così tanto. Assurda ed incredibile, lanciamo un po' di aggettivi a caso nell'etere per definire quel torneo in cui Andrea Lazzari, centrocampista dell'Atalanta, diventa capocannoniere con nove goal, segnando la maggior parte degli stessi alla Juventus.
Una Coppa Italia, quella 2004/2005, in cui nell'ottavo di finale tra il Lecce e l'Udinese vengono segnati 16 goal in 180 minuti. S-e-d-i-c-i. Sulla panchina bianconera siede Luciano Spalletti, su quella giallorossa Zdenek Zeman. E diciamo che la caterva di reti si spiega tutta. Sdengo ai massimi livelli di spettacolarità calcistica, in cui l'importante è segnare una rete in più degli avversari, sia 2-1 o 356 a 355. Otto marcature a testa, ed una qualificazione friulana al turno successivo ottenuta solamente grazie a quell'andata così esageratamente fuori dal comune.
Per aumentare l'enfasi e la mitologia attorno al micro-mondo Lecce contro Udinese di quell'annata, è necessario aggiungere un piccolo, con una decina di c, particolare: circa una settimana prima dell'andata di Coppa Italia, sempre a Via del Mare, le due squadre si bombardano di reti e colpi di scena. 4-3 per i bianconeri di Spalletti, che si ripeteranno poco dopo con un 5-4. Ed il calcolo delle azioni schizza così verso il cielo a 23 goal in tre gare. Più che leggendario, mitologico. Tanto che il ritorno al Friuli finirà di nuovo 4-3, ma stavolta per i giallorossi, con conseguente qualificazione friulana solo grazie al criterio delle reti segnate fuori casa. Leggendario.
L'andata di Coppa Italia, però, riassume tutta l'epica di quell'annata, in cui Lecce e Udinese misero i panni di futuri Clasicos tra Real e Barcellona o di passati Boston Red Sox-New York Yankees. Quella gara, gradino in alto, poi, visualizzate nella vostra mente, palmo della mano in basso, ad indicare un divario enorme con le altre sfide di tal stagione calcistica italiana.
Il Via del Mare non è colmo di bandieroni, ancora figlio di una Coppa Italia vista come fastidio e non grande opportunità. Pochi tifosi, tante emozioni. Ci si può sedere in ogni angolo dello stadio senza per forza dialogare con il proprio vicino, tanti sono i posti vuoti nell'impianto leccese. Peggio per chi si perde un triplo vantaggio dei propri beniamini, meglio per chi a fine gara dirà che sì, tanto la squadra ha perso, soldi risparmiati. Errato.
Sì, il Lecce perde la gara, al termine dei 90', e poco più, ma non di sole vittorie può nutrirsi l'homo sportivus. La spettacolarità è tale e l'evento di così grandiosa portata che, tornando al principio della storia, la rabbia della sconfitta dei tifosi di casa è soppiantata dalla spettacolarità e dal poter dire, sì, io c'ero.
Non c'era la difesa dell'Udinese, in quel primo tempo, annientata dai goal di Bojinov, Ledesma e Dalla Bona. Zeman fuma, indica, bacchetta, và tre volte avanti soddisfatto interiormente, ma con il solito sguardo di chi non si accontenta mai, esteriormente. Coprirsi nella seconda parte della prima frazione? Reato di lesa maestà che i suoi giocatori non vogliono compiere. E nel più classico dei tomi zemaniani, il 3-0 è solo l'anticamera del ritorno in partita degli ospiti, che riaprono il match con Felipe prima e David Di Michele poi.
Già, Di Michele. Perché abbiamo parlato di epicità a livello generale, perché Iliade, Eneide ed Odissea sono grandi racconti in cui convergono le storie di tanti. Alla fin fine, però, c'è sempre qualcuno come protagonista, Achille, Enea, Ulisse. E quel Lecce-Udinese fa rima con lui, 28enne di Guidonia Montecelio che a fine annata farà registrare la sua miglior prova nella massima serie di sempre, con 15 goal.
La volontà della D. è grande è l'altro Di, Antonio Totò Di Natale, segna il 3-3 senza stupire i conoscitori di Zeman, prima che il giovane Bojinov, destinato a passare ad una grande squadra nel breve periodo riporti avanti i suoi. Il tutto, e non si fatica a ricordarlo nonostante la quantità di eventi spioventi da ogni dove, prima dell'espulsione di Paci, che lascia il Lecce in dieci e l'indecisione degli eventi ai massimi livelli.
L'essere in superiorità numerica, ma in svantaggio, porta la foga dell'Udinese al limite, sul cornicione di chi dimentica ci sia anche una gara di ritorno e spinta dall'adrenalina vuole tutto e subito. Epico, prima che diventasse epic la parola d'ordine, è ancora realtà e David Di Michele, DDM, segna la personale doppietta e la rete del pareggio, che non sarà né l'ultima sorpresa, né l'ultimo evento.
Primo, il goal di Di Natale per il 5-4 che fa alzare spalle e previsioni. Secondo, l'espulsione del debuttante Samir Handanovic, portiere sloveno buttato nella mischia in occasione della Coppa Italia. La parata su Pinardi è da applausi, meno l'uscita su Vucinic che ne causa l'espulsione all'ultimo secondo. In un mondo, quello di Lecce-Udinese, in cui i cambi sono finiti e qualcun altro, inteso come giocatore di movimento, deve infilarsi i guantoni.
YoutubeSpalletti indica qualcun altro, non lui. Ma ebbro di tutto quel fantasioso giorno che nessuno si sarebbe mai aspettato, sente il pantheon della gloria su di lui, Di Michele. Ubriaco dell'eternità di quel momento, sì, ma anche dalla consapevolezza che più dei suoi compagni può veramente alzare da 9,5 a 10 il voto di quella sfida.
La parola dunque, proprio a lui, Di Michele, che anni dopo, racconta così, quel momento ancora lucido, perfetto nella sua mente e mai sporcato dallo scorrere del del tempo:
"Non capita a tutti. Io già mi mettevo in porta di solito a fine allenamento, mi piaceva stare in porta. Dissi che andavo io tra i pali, mentre mister Spalletti voleva che ci andasse Muntari. Io però mi sentivo di andarci".
Vucinic prende la sfera dopo essersi procurato il rigore, vuole essere lui a prendersi la responsabilità sì, ma anche la gloria dell'eventuale pareggio e chissà, vittoria post tempi regolamentari. Se la sente, ma sul suo umore c'è quel battibecco con Bojinov, astro reduce dalla doppietta di giornata che vuole andare oltre la normalità di un giovane 18enne con due goal a regime:
"Mentre mi infilavo i guanti e la maglietta di Handanovic, che mi arrivava al ginocchio come una gonna, sul dischetto c'erano Vucinic e Bojinov che litigavano per chi doveva battere il rigore. Poi Vucinic andò deconcentrato e innervosito per quella lite".
Sì, Di Michele amava andare in porta, ma un conto è farlo in allenamento scherzando e ridendo, un conto è farlo in allenamento e un altro in gara ufficiale:
"Pensavo fosse inutile che mi buttassi, perché tanto al 99,9% mi avrebbe fatto goal. Appena lui ha iniziato la corsa, mi sono spostato un po' verso destra".
Attorniato dall'epicità e da quella previsione del futuro che avviene quando tutto deve andare bene, Di Michele, portiere con i piedi da calciatore di movimento, fa volteggiare la maglia rosa a sinistra, in maniera goffa ma sì, efficace:
"Lui col piede di richiamo ha tirato centrale e io col collo sinistro l'ho tirata fuori. C'è stata un'ovazione, perché poi l'arbitro ha fischiato la fine".
5-4. Due espulsi. Tre doppiette. Nove goal. Un attaccante che para al collega un rigore, all'ultimo secondo. Beh. Al ritorno 4-3? Che banalità.




