Ti trovi in Brasile. Accendi la tv via cavo, ti sintonizzi su SporTv. Ad accoglierti, ogni tanto, una voce baritonale, serena. Sguardo profondo, occhiali con la montatura nera. Niente schiamazzi, niente urla. Nessun “goooool” trascinato fino a compromettere le corde vocali. Edinaldo Batista Libânio, quello che tutti da sempre conoscono come Grafite, è così: è una seconda voce e un opinionista pacato, di quelli che quasi alzano la mano prima di parlare, tanto è il pudore che avvertono nel cuore. Il direttore della Rede Globo Nordeste, ha raccontato, una volta lo ha rimproverato: dopo una rete non aveva alzato abbastanza i decibel nel commento. “Ma durante i Mondiali del 2018 ho imparato il timbro di voce da usare”.
L'altro Grafite, quello che viveva la sua prima vita su un campo da calcio, ce lo ricordiamo quasi tutti. È il centravanti che, in coppia con Edin Dzeko, ha portato il Wolfsburg al suo primo, e fino a oggi unico, titolo di Bundesliga. Che storia, quella storia. 2008/2009, un'impresa sportiva in piena regola. Non proprio come il Leicester di Claudio Ranieri, quello no, ma insomma, siamo lì. Perché puoi anche avere alle spalle il colosso Volkswagen, ma se ogni benedetto anno uno dei tuoi 17 avversari si chiama Bayern Monaco, le probabilità di chiudere la stagione dal secondo posto in giù toccano il 99%. Facciamo il 100%, almeno da qualche anno a questa parte? Limitiamoci al 99.
L'1% si verifica in quella stagione difficilmente dimenticabile. Per il Wolfsburg, per la Germania, per i collezionisti di imprese. I nuovi e inediti campioni chiudono a 69, il solito Bayern per una volta si accontenta di toccare quota 67. E il re di quel capolavoro non è mister Edin, che poi acquisterà il biglietto della lotteria che lo porterà a Manchester, e poi a Roma, e poi a Milano: è Grafite. 28 reti, titolo di capocannoniere, una stagione così mai, mai, mai più nella vita. Dzeko, lui, si ferma a 26. "Io e Edin ci completiamo", diceva 'Grafa' ai tempi. Una coppia di fatto alimentata dall'altro bosniaco Misimovic, un binomio esplosivo da 54 reti in due: Gerd Müller e Uli Hoeness, una trentina d'anni prima, si erano fermati a 53. Storico.
E poi c'è il fotogramma principe di quella stagione. 4 aprile 2009, Wolfsburg-Bayern, scontro diretto per il titolo. Alla Volkswagen Arena non c'è storia: stravincono i padroni di casa, con un 5-1 che parla da sé. Segna Gentner, pareggia il nostro Luca Toni, poi doppietta di Dzeko e poker di Grafite. Che al 77' decide di aver ancora voglia di divertirsi: prende palla sulla sinistra, entra in area, passa in mezzo come per magia a un paio di avversari, aggira pure il portiere Rensing e spalle alla porta si inventa un colpo di tacco debole, debole, debole, ma mortifero. Sarà votato goal della stagione in Bundesliga, naturalmente. E sarà determinante, assieme ad altre gemme, per consentire al brasiliano di essere premiato calciatore dell'anno nel campionato tedesco.
“E pensare che non ho vinto il premio Puskas solo perché non sono andato alla cerimonia– ha raccontato Grafite al portale 'UOL' – La FIFA ha mandato l'invito, ma il club non me l'ha girato. Il 19 o 20 dicembre abbiamo giocato, il 21 o 22 c'era l'evento, ma io avevo già acquistato il biglietto per tornare in Brasile. C'è stato un errore di comunicazione all'interno del club. A vincere alla fine è stato Cristiano Ronaldo, bel goal, ma normale se paragonato a quello che avevo segnato io. Alla fine ho saputo che la FIFA non dava il premio a un giocatore assente dalla cerimonia”.
GettyDal nulla assoluto al trono di Germania. Un'ascesa portentosa. E rapida. Perché fino a 22 anni, Grafite nemmeno ce l'ha una squadra professionistica in cui mettersi in luce. Da ragazzino vende sacchetti della spazzatura porta a porta, colleziona rifiuti su rifiuti ai provini, giochicchia a livello dilettantistico al Matonense. Poi lo prende la Ferroviária. Nasce il sogno di sfondare, certo, ma c'è pure una realtà che fa a pugni con le ambizioni. Edinaldo non ha nemmeno un soprannome, un apelido. In Brasile un po' tutti ce l'hanno appiccicato addosso. Un giorno, uno dei suoi primi allenatori si avvicina e decide per lui: d'ora in poi tu ti chiamerai Grafite. Ma come Grafite? Sì, Grafite. Come il materiale per le matite.
“Mi chiese: “Come ti chiami?” – ha raccontato a 'UOL' – E io: “Edinaldo”. “Non ce l'hai un soprannome?”. “Mi chiamano tutti Dina”. “Ah, ma Dina è un po' troppo affabile, o no? Non attecchirà nel calcio”. Non gli diedi nemmeno retta. E lui: “Grafite”. Gli chiesi perché proprio Grafite. “Perché avevo un compagno di squadra che ti assomigliava. Era alto e molto magro”. Da lì i miei compagni iniziarono a prendermi in giro. Più un soprannome non ti piace e più non riesci a togliertelo di dosso, non c'è niente da fare”.
Grafite, volente o nolente, quel soprannome se lo deve tenere. E, beh, gli porta discretamente bene. Perché dopo la Ferroviária arriva il Santa Cruz, Serie A brasiliana, che nel 2001 lo mette sotto contratto a 22 anni. E poi ecco il Grêmio, la grande occasione, la big tanto sognata, dove però non sfonda. Il tempo per una spruzzata di Corea del Sud ed è al Goiás, ancora in Serie A, dove inizia finalmente a imporsi ai più grandi livelli. Fino alla chiamata del San Paolo, che diventerà una sorta di seconda pelle.
Nel 2005 ci vince una Libertadores e un'Intercontinentale, col Tricolor paulista. Nella doppia finale contro l'Atletico (oggi Athletico) Paranaense non c'è perché si è infortunato a un ginocchio, in Giappone contro il Liverpool è in campo per uno spezzone di partita. Non tutto va per il verso giusto, però. In quello stesso anno la Seleção lo convoca per la Confederations Cup tedesca, ma quel problema fisico lo costringe a rinunciare alla chiamata. Nemmeno il rapporto con la tifoseria è un simbolo di perfezione: un anno prima era stata una sua doppietta allo Juventus a evitare la retrocessione dei rivali del Corinthians nella seconda serie del Paulistão, il torneo dello Stato di San Paolo. Un mezzo sacrilegio.
“Ricordo, ricordo – ha detto nel 2016 a 'ESPN Brasil' – e se per caso dovessi dimenticarmelo, ci penserebbero i tifosi delle due squadre a ricordarmelo. Quelli del Corinthians mi vogliono più bene di quelli del San Paolo. Quando incontro un tifoso corintiano mi ringrazia, mentre quelli sãopaulini mi criticano per non aver permesso la retrocessione del Corinthians”.
Però quelli sono gli anni della svolta vera. Dell'Europa che bussa alla sua porta, anche se non è esattamente un'Europa di primissimo livello: Le Mans, Ligue 1, Francia. Grafite fa coppia col connazionale Tulio De Melo, il centravanti del doppio contratto firmato con Parma e Palermo. Si lascia alle spalle un episodio razzista con Leandro Desábato, centralone duro e puro (puro?) del Quilmes, che lo insulta per il colore della sua pelle. Si lascia alle spalle gli insulti dei tifosi argentini, che nella partita seguente espongono uno striscione con su scritto "Grafite macaco". E si lascia faticosamente alle spalle pure il sequestro-lampo della madre, 24 ore prima della liberazione (il rapitore sarà arrestato solo otto anni più tardi). Il San Paolo non prende benissimo il suo addio, concretizzatosi grazie a un cavillo contrattuale. Il presidente gli dà dell'ingrato e il rapporto si rompe. Dirà Grafite anni dopo: “Non mi sono pentito per essere andato via, ma per la forma in cui sono state condotte le trattative”.
Rubens Chiri/saopaulofc.netIl trasferimento dal Le Mans al Wolfsburg, estate 2007, sembra assomigliare a tanti altri. Un club medio che prende un calciatore medio perché i più bravi non se li può permettere, vorrei ma non posso, meglio non soffermarcisi più di tanto. Sembra, già. Perché già la prima annata in Bundesliga fa capire che, forse, non è proprio così: 11 reti di Grafite e Wolfsburg al quarto posto finale con gli stessi punti dell'Amburgo. Il capolavoro dei mesi seguenti è uno schiaffo alla banalità del dominio bavarese. E qual è il premio per Grafite? La Seleção, di nuovo. Ovvero i Mondiali sudafricani del 2010. Stavolta senza intoppi di mezzo.
Che poi, occhio ai numeri: Grafite si presenta a quell'appuntamento con un paio di presenze in Nazionale nel curriculum, un'ottantina complessiva di minuti giocati, una rete messa a segno e un assist.Not bad at all. Però quando il ct Carlos Dunga include nella lista il suo nome e non quello di Adriano, appena sbarcato a Roma al grido di “mo' te gonfio”, qualcuno strabuzza lo stesso gli occhi. Ma in che senso Grafite ai Mondiali? Anche perché il nostro era stato convocato nel 2005, nell'amichevole d'addio di Romario, e aveva pure segnato. Poi, più nulla fino alle prime settimane del 2010. Nemmeno durante l'annata in cui trasformava in oro tutto quel che toccava (o guardava).
“Ci sono giocatori che hanno a disposizione innumerevoli opportunità e credono che ci sarà sempre una prossima – dice Dunga ai tempi –Altri, invece, dimostrano in cinque minuti il motivo per cui sono qui. Io non voglio che la gente venga nella Seleção e spacchi il mondo, ma che quando indossa la maglia amarela abbia una mentalità vincente e la stessa personalità che mette in mostra nel proprio club”.
“Un opinionista disse in radio che “non si può, Grafite ai Mondiali non si può” – ricorda Grafite a 'UOL' – Ho ricevuto dure critiche, ma avevo già 31 anni, ero esperto. Se ne avessi avuti 20, 22, non le avrei assorbite allo stesso modo. La mia chance di andare ai Mondiali era minima. Quel posto era di Adriano. Non posso dire il contrario”.
In Sudafrica non gioca praticamente mai, Grafite. Però fa una comparsata contro il Portogallo nei gironi, cinque minuti appena, un contentino che gli basta e avanza. È l'altro picco massimo della sua carriera, oltre ai 28 centri del 2008/09. Poi, lenta ma continua, inizia la discesa. Un po' di Emirati e Qatar, giusto per rimpinguare adeguatamente il portafogli. Il ritorno al Santa Cruz, dove viene accolto da re. Pure l'Atletico Paranaense. I ricordi, quelli restano. Anche le occasioni sfumate, da raccontare però con un leggerissimo orgoglio ai nipotini davanti a un caminetto acceso. Come quando, ha svelato lui stesso a 'ESPN Brasil', “al Real Madrid fecero anche il mio nome per sostituire l'infortunato van Nistelrooy”. O come quando “nacque l'opportunità di andare al Liverpool, ma l'affare non si concretizzò”.
Nessun rimpianto, nessun what if. Il ragazzo alto e magro che vendeva sacchetti della spazzatura si è fatto un nome. Ogni tanto lo intervistano per parlare dell'ex partner Dzeko, più spesso lo ascoltano in Brasile durante o dopo le partite. Ha aperto un profilo Instagram solo su insistenza della figlia, ma fosse stato per lui mica l'avrebbe fatto, perché il rapimento della madre non l'ha ancora dimenticato:“Non mi piace esporre la mia famiglia”. Pacato e poco avvezzo ai riflettori, ancora una volta. Nella vita e davanti a un microfono. Nonostante un'impresa che nessuno ha mai dimenticato.


