Un giorno, forse, qualcuno gli dedicherà una serie. Perché la vita di Karel Poborsky , fresco di quarantanovesimo compleanno, è tutto fuorché banale. Dalle prodezze sul rettangolo di gioco, a una rete entrata di diritto - nel bene e nel male - nelle storie di Juve e Inter , passando per una malattia fulminea che avrebbe potuto costargli la vita.
Controcorrente. Parola chiara per colui che, partendo dalla fu Cecoslovacchia, è riuscito a consacrarsi nell'élite calcistica, senza che nessuno gli regalasse nulla. Pura e (non) semplice gavetta, con i primi assaggi tra le giovanili della sua città, il Trebon, per poi arrivare al blasone di squadre come Manchester United , Benfica e Lazio .
Un'ala destra. Una magnifica ala destra. Uno che, se fosse ancora in attività, verrebbe etichettato come "moderno". D'altro canto, è proprio così: Poborsky - nel modo di interpretare il suo ruolo - non ha mai avuto nulla di antico. Sarà stata la classe, sarà stata la velocità, di certo complessivamente ne è emerso un ricco e produttivo bagaglio tecnico.
Considerato in patria come uno dei migliori giocatori di tutti i tempi, Karel la maglia della sua Nazionale l'ha sfoggiata per ben 118 volte. Insomma, una colonna. E le prodezze non sono mancate, affatto.
Basti pensare a Euro '96, all'incursione per vie centrali sfociata in un maestoso pallonetto capace di fulminare senza pietà Vitor Baia, portiere del Portogallo. Alla fine di quella competizione, la Repubblica Ceca ottenne il secondo posto, sconfitta in finale per 2-1 ai supplementari dalla Germania.
I pensieri italiani, invece, vanno direttamente alla stagione 2001-2002, quando Poborsky vestiva la casacca della Lazio .
Getty ImagesMa soprattutto quando una sua doppietta all'Inter, all'ultima giornata di campionato, nel 5 maggio 2002 , costò lo scudetto ai nerazzurri. Una beffa che ancora oggi è in voga tra i pensieri dei tifosi juventini che, grazie a quella prestazione e alla vittoria sull'Udinese, videro i propri beniamini conquistare un tricolore ormai insperato.
Un epilogo incredibile, commentato così da Stefano Fiore, compagno di squadra del ceco in biancoceleste:
"Sapeva che sarebbe andato via da Roma. Ma era talmente in lite con il mondo che quella partita la giocò alla morte. Era lontanissimo per ideologia politica da quei tifosi che ci chiedevano di perdere, e altrettanto distante dalla maniera italiana di vivere le partite ".
Prima un inserimento a tutta velocità, culminata in un destro esplosivo, con tanto di esultanza polemica sotto la Curva Nord. Poi, una leggerezza di Gresko punita sempre dall'incontenibile Poborsky. Due lampi che, seppur a distanza, gli sono valsi il rispetto a vita da parte del popolo juventino:
"So di essere l’idolo della Lazio e anche dei tifosi della Juventus. Voglio dire semplicemente che seguo ancora il calcio italiano, sono un grande appassionato e auguro alla mia ex squadra tutto il meglio ".
Poborsky nella sua vita non s'è fatto mancare nulla, neanche un dramma per fortuna sfiorato . La malattia di Lyme, un'infezione provocata da un batterio, Borrelia burgdorferi, trasmesso all'uomo dalle zecche dei cervi e, dunque, dalle aree boscose.
Tempi bui raccontati dal diretto interessato che, in varie interviste, ha spiegato come la tempestività nella risoluzione del caso abbia rappresentato tutto:
"Ero in coma indotto. Al mio risveglio, mi hanno chiesto quale fosse il mio nome. Tutti i miei muscoli facciali erano paralizzati, ho trascorso tre settimane in quarantena nella struttura sanitaria sotto potenti antibiotici. Non potevo mangiare, dovevo tenere gli occhi coperti perché ero molto sensibile alla luce. Ero parecchio spaventato ".




