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Filippo Inzaghi MilanGetty Images

Inzaghi e l'amarezza di Istanbul: guardò Milan-Liverpool dalla tribuna

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Filippo Inzaghi c'è, parafrasando Guido Meda. C'è e c'è sempre stato. In area di rigore, nelle partite che contavano davvero, all'appuntamento con coppe e medaglie. Non a caso lo hanno sempre chiamato Superpippo, il supereroe che risolve i problemi. Del Milan, soprattutto. Ma anche, in misura minore, della Juve e della Nazionale. Ma c'è un momento, nel corso della sua gloriosa e vincente carriera, in cui Inzaghi non c'è. Non c'è in campo e non c'è nemmeno in panchina. È in tribuna, a soffrire come un tifoso qualunque, evento rarissimo per uno che ha sempre vissuto – e tuttora continua a vivere, sotto altre vesti – di pane e pallone.

Istanbul, 25 maggio 2005. Il primo dei due Milan-Liverpool. La finale di Champions League più folle di sempre assieme a Bayern-Manchester United di sei anni prima. 3-0 Milan nel primo tempo, 3-3 Liverpool nel secondo. Poi i supplementari, poi Dudek che fa il fenomeno su Shevchenko e poi diventa il re dei rigori. Tutto visto e tristemente, almeno dall'ottica rossonera, rivisto. Anche da Inzaghi, che è reduce da due anni passati più in infermeria che in campo ma ha la concreta speranza, alimentata dalle parole di Carlo Ancelotti alla vigilia della grande sfida, di poter giocare almeno qualche minuto.

“Inzaghi sta bene – dice il tecnico in conferenza stampa – e può essere utilizzato. E poi, non avendo giocato molto fino a questo momento, è uno dei giocatori più freschi a disposizione”.

E invece, al momento della consegna delle formazioni un po' tutti strabuzzano gli occhi. Davanti tocca a Crespo e Shevchenko, e fin qui tutto ok, è la coppia d'attacco tipo della stagione. Ma il prescelto per la panchina è Tomasson, che per qualità tecniche e curriculum dovrebbe essere la teorica quarta punta della rosa. Per Inzaghi, che solo tre giorni prima aveva giocato uno scampolo di partita a Palermo in campionato, si schiudono amaramente le porte della tribuna.

Per capire come si arrivi a una situazione del genere, apparentemente paradossale se si guarda all'intero percorso con il Milan, è necessario analizzare in maniera complessiva il biennio 2003-2005. Fortunato per la squadra, che dopo Manchester prima vince lo scudetto e poi si arrampica fino alla finale di Champions League. Non per Inzaghi, costretto a fare i conti con il tormento di continui dolori fisici e psicologici.

Nel 2003/04, Pippo colleziona appena 14 presenze in campionato (più 8 in Champions League), con due reti all'attivo. Briciole. Deve fermarsi seriamente una prima volta a fine 2003, per un guaio muscolare a coscia e polpaccio che lo estromette dall'Intercontinentale contro il Boca. Torna a gennaio, ma un nuovo problema al polpaccio lo costringe a tornare ai box. Poi, ad aprile, si infortuna alla caviglia sinistra e deve finire sotto i ferri. Risultato: stagione conclusa in anticipo e niente convocazione a quegli Europei portoghesi che anche lui, con una fondamentale tripletta al Galles a San Siro, aveva contribuito a conquistare. Ed è pure per questo che il Milan decide di cautelarsi sul mercato: ecco Hernan Crespo, in prestito dal Chelsea. Anche se Adriano Galliani frena:

“Lo abbiamo preso perché avevamo bisogno di quattro attaccanti di valore, non perché fossimo già coscienti dei problemi di Inzaghi”.

Hernan Crespo MilanGetty

Il 2004/05 non inizia diversamente. Inzaghi ha ancora problemi alla caviglia operata, si scopre che è interessato pure il legamento, nascono tensioni col Milan che lo accusa di aver fatto di testa propria, scegliendosi i medici senza il consenso societario. Altro giro, altra operazione, stavolta in autunno. E intanto Crespo inizia a ritagliarsi sempre più spazio, sempre che Ancelotti non decida di trasgredire al diktat berlusconiano per tornare all'amato albero di Natale.

Che sia un'annata maledetta, poi, lo si intuisce piuttosto chiaramente a fine gennaio: Inzaghi torna in campo nell'andata dei quarti di Coppa Italia contro l'Udinese e si fa male di nuovo: “frattura del primo metacarpo della mano destra di Inzaghi e della lussazione trapezio-metacarpale”, come comunicato ufficialmente dal Milan. Pippo deve operarsi. Ancora una volta.

“Pazienza – la prende sul filosofico Inzaghi – significa che mi preparerò ancora meglio per il finale di stagione. Arrabbiarsi non serve, devo accettarlo. Spero di aver regolato i conti con la sfortuna. Una volta rientrato non voglio più uscire”.

Inzaghi torna giusto in tempo per il finale di campionato, che vede il Milan accontentarsi della seconda piazza dietro alla Juve campione. Torna titolare il 15 maggio, sette mesi dopo l'ultima volta, in casa del Lecce, dopo aver già collezionato un paio di scampoli di partita. Una liberazione.

Il suo 2005/06 finisce con zero reti all'attivo, record storico in negativo, ma è ovvio che si torni a pensare anche a lui come possibile partner di Shevchenko a Istanbul. Perché Inzaghi è l'uomo delle notti europee. E lui stesso, nelle dichiarazioni un po' di prassi e un po' emozionate dei giorni precedenti, non fa nulla per nascondere la speranza di partire dall'inizio contro il Liverpool.

“Vediamo, chiaro che tutti vorrebbero giocare una finale di Champions League. La cosa più importante è essere tornato a sentirmi un calciatore. E sono felice del fatto che tutti, Ancelotti in primis, stiano dichiarando di vedermi molto bene”.

Filippo Inzaghi Carlo Ancelotti AC Milan

Ancelotti, in realtà, ha ben chiaro come comportarsi. Non può rischiare un Inzaghi a mezzo servizio ormai da due anni e sacrificare Crespo, già 5 reti in Champions. Il titolare accanto a Sheva è l'argentino. Resta da stabilire solo chi, tra gli altri due attaccanti della rosa, siederà in panchina e chi andrà a rosicchiarsi le unghie in tribuna. La scelta più impopolare è fatta: il danese sarà a disposizione, Superpippo no. Da non crederci.

Un paio di giorni dopo, nel proprio editoriale sul 'Corriere della Sera', Giorgio Tosatti non risparmia le critiche ad Ancelotti, che “si crogiola nei tre goal di vantaggio”, “non toglie un attaccante (più Sheva che Crespo in stato di grazia) per aiutare i suoi centrocampisti in grave inferiorità numerica”, “è bravo nel preparare la squadra, ma poco reattivo come stratega in campo” e, dulcis in fundo, sbaglia nel “mandare Inzaghi in tribuna per tenere Costacurta e Kaladze in panchina più tre centrocampisti”.

Chi lo sa: magari Pippo avrebbe lasciato la zampata finale ai supplementari, lui fresco come una rosa contro avversari con la lingua penzoloni. Magari non avrebbe sbagliato davanti a Dudek come fatto da Tomasson, entrato per Crespo alla fine dei tempi regolamentari. O magari sì. La controprova non esiste. Di certo, di concreto, rimane solo l'amarezza per una finale vista da spettatore qualunque.

"Avevo una lesione alla rotula - ha raccontato a 'Tiki Taka' - ma volevo andare in panchina. Ero fuori di testa, non capita tutti i giorni di giocare una finale di Champions League".

Il rapporto con Ancelotti, in ogni caso, non si incrina. E nemmeno quello col Milan. Che due anni dopo torna a giocarsi la Champions League in finale. Stessa spiaggia, stesso mare, stesso avversario: il Liverpool. Stavolta ad Atene. Ma il destino, che a volte sa essere tremendamente beffardo, avrebbe nuovamente voglia di prendersela con Inzaghi.

“Non stavo bene, ero mezzo stirato e quindi avevo addosso una pressione enorme – ha raccontato alla 'Gazzetta dello Sport' – Pensavo: se nella prima ora di gioco non riesco a combinare nulla, mi aspetta una sostituzione inevitabile".

“Non si teneva in piedi – ha confermato Adriano Galliani – dissi a Carlo Ancelotti che forse era meglio far giocare Gilardino che stava meglio”.

No, non sarebbe stato giusto. Non per la seconda volta. E infatti all'Olimpico di Atene Inzaghi viene, vede e vince. E decide: due goal, uno fortuito nel primo tempo e l'altro più voluto che mai nel secondo. 24 mesi dopo, Istanbul e la tribuna dell'Atatürk sono finalmente dimenticate.

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