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Cristiano Ronaldo Portugal HIC 16:9Getty

Cristiano Ronaldo ha scelto il finale peggiore per la sua carriera

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Genuflesso, sul prato verde dell'Al-Thumama, Cristiano Ronaldo ha compreso appieno il senso della sua missione e forse ha scelto il suo futuro: ha firmato le pagine migliori della storia del calcio, ma non potrà mai compiere il disegno che ha progettato per tutta la vita. Diventare il migliore tra tutti: il migliore della storia, per distacco e per ragione dei fatti e non delle opinioni. Per quest'ultime, per qualcuno e lecitamente, lo è già.

No: lui avrebbe voluto esserlo “al di là dei pareri”, rubando persino il fuoco agli dèi, piazzandolo nella già ricchissima bacheca che contraddistinguerà per sempre la sua carriera leggendaria: la Coppa del Mondo avrebbe spazzato via qualsiasi chiacchiera legata alla sfera del concreto, rendendolo di fatto "l'unico". L'immenso peso della responsabilità di cui si è fatto carico dall'inizio della sua avventura calcistica, ossia il voler diventare il più forte al di là di qualsiasi concezione di "limite", è piombato sul suo capo come macigno insopportabile al triplice fischio di Facundo Tello. Che senso ha avuto portare il suo talento al di là dell’umana concezione? A cosa è servito devolvere corpo e mente a un ideale, se per qualcuno continui a poter essere messo, continuamente, in discussione?

Queste domande, ahi tutti, Cristiano Ronaldo avrebbe dovuto farsele prima di sposare l’idea, piena di “hybris”, tracotanza, di giocare con la propria immagine, scegliendo il peggiore finale possibile per la sua carriera che continuerà lontano dall'Europa. C’è un prima e un dopo il 2018: c’è un prima e un dopo il suo trasferimento alla Juventus, che non potrà mai essere il vero e unico motivo del declino del portoghese. Affrontare una nuova sfida in un calcio diverso, in un club diverso, in un campionato diverso gli era stato richiesto già dopo la sua terza Champions League vinta con la maglia del Real Madrid, sotto il “cielo” (chiuso dal tetto Millennium Stadium) di Cardiff, figuriamoci un anno più tardi. Quel passo lì andava fatto: inutile discutere. In ogni caso, e su questo c’è poco da discutere, c’è un prima e un dopo il 2018 nella storia di Cristiano Ronaldo.

Tutto ciò che è arrivato poi è nebuloso: dai goal siglati con la maglia bianconera (eccezion fatta per la tripletta contro l’Atletico Madrid, gli altri si fa fatica a ricordarli con chiarezza) alla gestione personale e del gruppo, una delle doti da sempre messe in mostra durante le sue esperienze al Manchester United, al Real Madrid e persino nel Portogallo, quasi spinto a forza dal carisma del portoghese alla vittoria a EURO 2016, se è vero che le immagini impresse nella memoria di tutti sono sì, quella della rete messa a segno da Eder, ma anche quella di un Cristiano Ronaldo in lacrime, tesissimo e con una borsa del ghiaccio all’altezza del ginocchio, impegnato a scuotere e a sollevare di peso Fernando Santos all’interno dell’area tecnica dei lusitani.

“L’amico”, come lo ha definito Georgina: “l’amico” che lo ha spedito in panchina in quelle che, fino all’ennesima prova di forza (di volontà) di Ronaldo, rimarranno le sue ultime due gare in un Mondiale. Sfugge il senso: della scelta di Santos, ma anche del vortice degli eventi che ha portato il capitano del Portogallo a essere messo da parte persino dal suo Paese, disseminato da sue statue e raffigurazioni. Padre, figlio, spirito santo e Cristiano Ronaldo.

Il nesso, in realtà, c’è: per un attimo anche lui deve aver pensato di essere andato “oltre” la sfera del possibile, esagerando. Eccola, la tracotanza. Eccola, la “hybris”. “Grazzie” (con due z, come nei saluti ufficiali ai tifosi juventini) a delle scelte che rischiano di aver rovinato irreversibilmente la concezione generale della carriera di una leggenda. Chi lo ha sempre denigrato vede nella sua “caduta” l’atto conclusivo ed emblematico dei suoi limiti, chi lo ha venerato fatica a credere che quanto è accaduto dalla sua fuga dalla Juventus, in fretta, furia e confusione, sia avvenuto realmente, e che non sia frutto di un incubo. Chi, invece, lo ha seguito da spettatore neutrale si dispiace: esistono tanti modi per terminare una storia sportiva. Questo, probabilmente, è il peggiore.

È passato un anno e mezzo da quando Ronaldo ha ascoltato Sir Alex Ferguson, firmando di nuovo per il Manchester United, ma in troppi, forse, sottovalutano il fatto che stesse per siglare un clamoroso accordo con il City. Sì, era un campanello d’allarme: forse il più grave.

Se a poche ore dalla fine del calciomercato Cristiano aveva deciso di accettare la proposta dei “rivali di sempre”, forse il finale della sua carriera si stava già sgretolando. Dall’intervista rilasciata a Piers Morgan, che ha poi portato al licenziamento di Ronaldo per mano dello United, non è passato neanche un mese: il mese peggiore della vita del “numero sette per antonomasia”.

Il problema è pure concreto, non solo simbolico. Cristiano Ronaldo non solo non sembra essere lontanamente quello dei record siglati, raggiunti e distrutti, ma sembra essere mentalmente lontano dalla figura del “professionista esemplare” su cui ha costruito gran parte del suo culto. Ha rotto con lo United, tanto da finire tra gli svincolati, ha rotto con il Portogallo: ha rotto con parte del mondo del calcio, quanto basta per non essere più appetibile, se non per i miliardari sauditi.

Si è approcciato ai Mondiali in Qatar nel peggiore dei modi e nel peggiore dei modi è uscito dall'Al-Thumama, il suo ultimo stadio “mondiale”: subentrato dall’ennesima panchina di una stagione da incubo (con quattro goal tra club e Nazionale), in lacrime e rotto nell’anima, come il sogno di rubare il fuoco agli dèi, mordendo la mela del peccato. Non vincerà mai una Coppa del Mondo e, anzi, ha visto Lionel Messi farlo. Beffa malcelata. Non sarà mai il “migliore” per ragione dei fatti, ma solo in termini di opinioni personali. A qualcuno può anche andar bene così: a lui no. Non si chiamerebbe Cristiano Ronaldo, altrimenti. L’unico. Il solo: anzi. In questo momento, del tutto “solo”. E basta.

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