
“I coraggiosi non sono quelli che si lasciano affondare, ma quelli che si rialzano più forti”: in termini strettamente ittici, potremmo parafrasare il concetto, espresso da Carlos Bacca a Marca appena arrivato a Siviglia, riferendoci a quelli che non si lasciano trasportare dalla corrente, ma che, anzi, la risalgono, con innata caparbietà. Le traiettorie disegnate dai pesci sanno essere imprevedibili: nulla, però, che lo stesso Bacca non sappia già.
Al suo arrivo a Malpensa esce dal terminal con la sciarpa rossonera al collo, tra gli incessanti flash di fotografi e tifosi e un entusiasmo ai limiti del contagioso. C’è del bizzarro, nel contrappasso che ha segnato a lungo la sua vita. Ha passato più di metà di questa alla ricerca della perfetta sintesi di calma, silenzio e meditazione, tramutata in pratica nell’arte (e mestiere) della pesca, salvo essere fiondato poi sul caos dei mezzi pubblici all’ora di punta e, infine, essere messo in mostra davanti a decine di migliaia di persone, in quello che è il luogo di congiunzione tra calma e caos. Un prato verde, posto perfetto in cui isolarsi, pur rimanendo strettamente connesso al contesto, pura esplosione euforica.
Bacca dentro di sé ha conservato la necessità di stasi e quella, contraria, d’estasi caotica, espresse, entrambe, da un viso al limite tra il corrucciato e il sorridente. Esperimento semplice: coprite la metà superiore del volto del colombiano con la mano. Ne verrà fuori un sorriso. Viceversa: ripetete il procedimento con la parte inferiore. Ecco la tristezza, la sofferenza. Yin e Yang, in un solo uomo.
Quello del pescatore attaccante, o dell’attaccante con la passione della pesca (non è il suo caso, visto che per lui si è trattato a lungo di un vero e proprio mestiere, ereditato dal padre) un giorno verrà riconosciuto come topos letterario del grande libro, racconto, del calcio. Basti pensare a Zlatan Ibrahimovic o a Erling Haaland, o, senza allontanarsi troppo, a Leonardo Mancosu, colui che non solo ha battuto la Juventus all’Allianz Stadium, ma che, recentemente, ha ammesso di avere in casa “più di 20 canne da pesca”, tanto da far impazzire la moglie. Un senso, però, c’è e sta nella preparazione all’attimo perfetto.
Carlos Bacca con Ibra, Haaland, Mancosu (e molti ancora, a elencarli non basterebbero i caratteri) tecnicamente ha praticamente nulla in comune: come gli altri, però, sa crearsi e creare lo spazio, sfruttarlo e leggere la situazione. Nella pesca, dare e tirar la lenza: dare e avere, entrando prima di tutto in sintonia con se stessi, poi con l’ambiente circostante. Infine, in maniera paradossale, con la preda.
GettyNon è un caso che le migliori stagioni del colombiano siano arrivate quando i primi due fattori, l’equilibrio personale e contestuale, gli sono stati favorevoli, con le persone giuste. Un allenatore dal carattere forte e un compagno di reparto dai piedi buoni. Riguardo questi ultimi, Teofilo Gutierrez e Ivan Rakitic, all’Atletico Junior de Barranquilla, una delle più importanti squadre colombiane e insieme club della città di Barranquilla, dove il giovane Carlos Bacca lavorava come controllore sugli autobus (chissà cos’avrà pensato, dopo averlo visto in TV, chi lo ha incrociato una, due, decine di volte a chiedere il biglietto per timbrarlo), e al Siviglia gli hanno dato una grossa mano a diventare quel che è: un giocatore letale nello spazio, con particolare attitudine al gioco in progressione.
Degli allenatori, invece, vale la pena citare senza alcun dubbio Unai Emery, con cui ha conquistato tre Europa League (tra Siviglia e Villarreal) e José Pekerman, commissario tecnico dei “cafeteros” tra il 2012 e il 2018, ma del rapporto con quest’ultimo si sottolinea la continua ricerca del miglioramento personale, passando per lo scontro.
“Non ho mai avuto la fiducia del “Profe”. Ho giocato perché facevo bene nella mia squadra, ma ci sono stati momenti in cui in nazionale Falcao e Jackson erano infortunati e c’ero solo io. Ricordo che quando stavano per iniziare i Mondiali del 2014 ero titolare a due giorni dalla prima e in un allenamento sono stato fatto fuori, preferendo Ibarbo. Questa cosa mi ha ferito molto”, ha spiegato a “El Colombiano”.
Amore e odio, gioia e sofferenza. Un po’ come al Milan. L’allenatore? Inizialmente quello giusto: Sinisa Mihajlovic, un motivatore. I giocatori accanto? Non la qualità che aveva attorno al Siviglia, ma neanche gli ultimi arrivati. Il primo goal in Italia, all'Empoli, sembra essere il trailer perfetto di una docuserie riguardante Bacca e il suo personale calcio: alla seconda giornata di campionato, 2015, ancora agosto, Luiz Adriano si smarca e con un preciso rasoterra in verticale manda in porta il colombiano, che oltre a superare nello scatto i due difensori centrali salta anche Skorupski, insaccando.
GettyNon è il miglior periodo possibile per vestire i colori rossoneri: Bacca vive due cambi in panchina in due stagioni, per un totale di tre allenatori. Mihajlovic, Brocchi e Montella. Il primo anno si chiude a 20 reti stagionali (18 in Serie A), il secondo a 14 (13 in massima serie) e una Supercoppa italiana. Nonostante ciò, e nonostante l’accoglienza, non è mai riuscito a diventare un giocatore simbolo. A tirare la lenza con il tempismo giusto, insomma.
“È un uomo che ha sempre tenuto fisso il suo orizzonte, mostrando sempre quel che voleva fare”, racconta un’insegnante della scuola dove è cresciuto. “Non c’era bisogno di essere un esperto o un professore di calcio per capire che c’era un grande potenziale come goleador”, spiega, invece, Julio Avelino Comesaña, allenatore che lo ha fatto esordire tra i professionisti.
Dopo il Milan è ritornato in Spagna, al Villarreal (43 reti in 144 presenze): a luglio 2021 si è trasferito al Granada, infine il ritorno in patria sancito quest'estate col 'sì' all'Atletico Junior (società in cui è cresciuto).
Nel 2014, in occasione dei Mondiali brasiliani, gli dedicarono una puntata del documentario “Del Portrero al Maracanã”, titolando “El hijo del pescador”: ne consigliamo la visione.
Quel che traspare da quest'ultimo, comunque, è il senso di profonda devozione, inverso delle proprie origini, a Carlos Bacca: la riconoscenza della famiglia che lo ha cresciuto nonostante la povertà (la sorella maggiore lo “copriva” ripulendolo dalla polvere accumulata al campetto, di nascosto dalla madre), il senso di gratitudine di familiari e conoscenti che in lui hanno visto soprattutto l’uomo, prima ancora che il calciatore e l’attaccante simbolo dell’ultimo decennio della Colombia. O del pescatore. Con quel “solco lungo il viso, come una specie di sorriso”.


