
Nascere il 29 febbraio, in un modo o nell’altro, rende una persona a proprio modo speciale. Nel caso di Benedikt Höwedes, il giudizio è avvalorato dal percorso di vita e dalla carriera. Un calciatore speciale, ma allo stesso tempo normale. Apprezzato per questo. In un ambiente in cui stare sotto i riflettori sembra condizione necessaria per emergere, il classe 1988 è stato una mosca bianca.
Nonostante una carriera vincente, che lo ha portato a fregiarsi soprattutto del titolo di Campione del Mondo nel 2014. Senza saltare nemmeno un minuto in tutta la rassegna. Pur non essendo un nome importante come Neuer, Lahm, Schweinsteiger, Müller, Klose. Senza neppure essere un personaggio mediatico come Mesut Özil o Jérôme Boateng. Tutt’altro. Perché per vincere un Mondiale c’è anche bisogno di un Benedikt Höwedes. Che non ama i macchinoni, perché si preoccupa del clima. E preferisce muoversi con la bicicletta. Come ha raccontato a GOAL nel dicembre del 2019.
“Da giovane professionista ho cercato di tenere il passo degli altri. Mi vergognavo di aver comprato una super macchina, mi resi conto che non era il mio mondo. Quando ti parlano di auto, orologi o abiti firmati, non vuoi ammettere di non saperne nulla. Devi commettere degli errori per ricordare se ciò che pensi sia giusto o sbagliato”.
‘Predestinato’ può essere una parola forte per descrivere un ragazzo partito da Haltern am See, città della Renania Settentrionale-Vestfalia nota soprattutto a livello storico per essere stata una fortezza romana intorno all’anno zero. Certo, già da giovane nei suoi primi anni allo Schalke il suo talento e la sua innata leadership erano evidenti. Norbert Elgert, da decenni il punto di riferimento del settore giovanile dei Knappen, lo ha subito eletto capitano dell’Under-19. Ha ricevuto anche la celebre medaglia Fritz Walter, un omaggio annuale ai migliori talenti tedeschi di ogni generazione. Neanche ventenne ha esordito in prima squadra con lo Schalke 04. Ci ha messo poco a diventare un punto fermo in campo.
GettyIl 2011 è l’anno in cui la sua carriera compie un balzo in avanti. È assoluto protagonista nello Schalke 04 di Ralf Rangnick, che elimina l’Inter ai quarti di finale di Champions League con un sontuoso 2-5 a San Siro, coronando poi l’impresa vincendo anche 2-1 in casa. Con goal proprio di Höwedes. Su azione da corner? Neanche per sogno. In contropiede, col destro, a tu per tu con Júlio Cesar. Staccandosi dalla linea difensiva. È stato protagonista anche in DFB-Pokal con l’assist per Raúl per il goal che ha eliminato il Bayern Monaco in semifinale, per poi segnare in finale nel 5-0 al Duisburg.
La sua propensione offensiva, d’altro canto, è sempre stata apprezzata dai tecnici. Nonostante il suo ruolo principale sia sempre stato quello di centrale di difesa, ha giocato spesso anche da terzino destro o sinistro. Il Mondiale del 2014, in Brasile, lo ha vinto giocando sulla corsia mancina, un ruolo nel quale Marcel Jansen e Schmelzer, provati nelle sfide tra il 2013 e il 2014, non convincevano, tanto che in Brasile non ci è andato nessuno dei due. Superati da Höwedes, che Löw aveva schierato un po’ per tutta la difesa nella sua carriera nella Mannschaft, prima di trovargli il ruolo perfetto in quella posizione, a coprire le spalle a volte a Podolski, a volte a Götze, oppure a Özil e Schürrle. Non ha saltato nemmeno un minuto. E in finale - oltre ad essere stato protagonista di un tentato bacio da parte di un invasore di campo - ha anche colpito un palo di testa.
Nello Schalke a volte il classe 1988 è stato utilizzato anche da mediano. Merito di una capacità di leggere il gioco superiore alla media, oltre che ad un’abilità tattica rara. Con la palla e senza palla, Höwedes sapeva fare la differenza. Raramente incorreva in errori banali o scelte superficiali. Il senso di responsabilità dominava il suo gioco.
Getty ImagesPer questo nell’estate 2011 è stato nominato capitano dello Schalke 04, a soli 23 anni. In uno spogliatoio con nomi del calibro di Raúl, Huntelaar e altri giocatori esperti e più blasonati, il leader era un ragazzo del 1988, sempre col sorriso stampato sulla faccia. Che si è sempre ritenuto troppo giovane per quel ruolo, ma allo stesso tempo è sempre stato conscio appieno del proprio compito e delle proprie responsabilità. Tra le quali, quella di calciare un rigore nella Supercoppa di Germania contro il Borussia Dortmund campione di Germania. E alzare il suo primo e unico trofeo da capitano dello Schalke. Farlo contro gli eterni rivali gialloneri nel Revierderby è stato ancora più speciale.
Tra Benedikt Höwedes e lo Schalke è stato amore per altri sei anni, tutti trascorsi con la fascia di capitano al braccio. Da idolo della Nordkurve, amato anche fuori dal campo (tre tifosi gli hanno anche dedicato una canzone su YouTube). Un idillio durato fino a quando, nell’estate 2017, il neo tecnico Domenico Tedesco ha deciso che a Gelsenkirchen potevano fare a meno di lui. Si diceva che avesse chiesto un posto da titolare inamovibile, versione smentita dal diretto interessato in un’intervista a GOAL
“Mi ha fatto male, sono rimasto molto deluso. Mi ha offeso soprattutto il modo in cui si è consumata la separazione: non avevo mai chiesto garanzie di essere sempre titolare o cose del genere”.
A fine agosto l’addio, tra le critiche dei tifosi, che lo avrebbero riabbracciato da avversario un anno dopo in uno Schalke 04-Lokomotiv Mosca di Champions League che sembrava più un segno del destino che una partita. Prima dell’esperienza russa, però, Höwedes ha vissuto una stagione in prestito alla Juventus. Non l’esperienza più facile della sua carriera, date le sole tre presenze e i continui tormenti muscolari che lo hanno limitato per tutta la stagione. Nonostante ciò, quell’annata ha significato molto per il classe 1988.
“C’era uno spirito di squadra eccezionale, sono rimasto molto colpito. Ricordo l’eccitazione la prima volta che sono entrato nello spogliatoio. C’erano leggende assolute che vennero a salutarmi in maniera raggiante. Sono stato apprezzato come uomo e come giocatore. L’anno prima che arrivassi, ogni giocatore aveva ricevuto una Ferrari come premio scudetto. All’interno dello spogliatoio, però, nessuno si è mai vantato e nessuno ha mai mostrato risentimento”.

Ha chiuso l’anno in bianconero diventando un idolo del web, nonché anima della festa Scudetto, perché in spogliatoio usava una birra per aprire altre birre. Poi, dopo Torino, il passaggio a Mosca per la coda della sua carriera. Due anni che lo hanno spinto a delle riflessioni sulla sua vita, sul suo futuro e sul suo presente. Fino a condurlo alla decisione di ritirarsi per poter passare più tempo insieme alla sua famiglia.
"Recentemente ho viaggiato con mia moglie e mio figlio in un camper nel sud della Francia e ho capito quanto volessi viverlo più da vicino: a quel punto il calcio è diventato così poco importante per me. Mio figlio ha quasi due anni e sfortunatamente non ho passato molto tempo con lui durante il periodo a Mosca: questa cosa mi ha fatto soffrire. Può sembrare stupido perché ho beneficiato tanto del business del calcio, ma il denaro non è importante per me”.
Ha lasciato a soli 32 anni, ancora con delle offerte sul tavolo per rimanere in campo. Senza aver mai coronato il suo sogno di battere il Bayern Monaco in Bundesliga e vincere il Meisterschale. Oggi è dirigente della Federcalcio tedesca. Elgert dopo il ritiro lo ha definito "un'anima buona". Un uomo straordinariamente normale, che ha messo il punto su una carriera straordinaria.


