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MESSI DI MARIA HDGOAL

L'Argentina di "Pachorra" e i sogni spezzati di Messi e Di Maria: la triste finale del 2014

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Allo scoccare del 57’ minuto, la panchina dell’Argentina scatta in piedi, seguendo con fare tarantolato la rivolta guidata da Alejandro Sabella, a capo delle proteste. Persino Gonzalo Higuain dimentica, per qualche secondo, di aver ricevuto una di quelle botte che i comuni mortali ricorderebbero e maledirebbero per giorni. In fin dei conti gli è appena franata addosso una montagna: il miglior portiere del mondo. Di lì a poco anche qualcosa in più.

Attorno a Nicola Rizzoli si crea un conciliabolo che, via via, va scemando d’intensità, mentre una scarica di adrenalina, ormai ai minimi, restituisce “El Pipita” alla dimensione del dolore: ricostruiamo brevemente vicenda e contesto.

Germania e Argentina si ritrovano dopo ventiquattro anni l’una contro l’altra in una finale dei Mondiali, e il caso vuole che entrambe vestano sostanzialmente, e senza troppa fantasia, gli stessi colori che hanno scritto l’atto conclusivo di Italia ’90. Il bianco, con i colori della bandiera tedesca per una, il blu per l’altra. Anche l’epilogo è simile: la gioia e le lacrime. A cambiare, semmai, è lo svolgimento. Ci arriviamo.

Sabella è incredulo: c’è un lancio lungo per Higuain, con la difesa tedesca costretta a riporre le proprie speranze su uno scatto senza pretese di Mats Hummels, ma soprattutto sull’uscita di Manuel Neuer, che prende il tempo e respinge con un pugno il “Brazuca”, il pallone, anticipando il “Pipita” nell’unico modo possibile. In salto, al limite dell’area, in volo. L’attaccante viene praticamente abbattuto, ma Rizzoli, direttore di gara designato per la più importante partita della sua carriera, fischia fallo offensivo: materiale da moviola e da dibattito al bar, nei mesi a seguire.

Neuer Higuain 2014Getty

A dir la verità, l’Albiceleste la finale la perde qualche azione prima, quando Lionel Messi spreca l’ennesima occasione creata dalla formazione di Sabella, spedendo il pallone dei (suoi) sogni a lato, da ottima posizione, all’interno dell’area di rigore. Da quel momento in poi l’Argentina avrà a disposizione solo una chance capitata, maldestramente, a Rodrigo Palacio. L’uomo giusto al momento giusto, ma non con la giusta palla.

L’ultimo pericolo creato dalla “Pulga” arriva dopo la girata al volo di Mario Gozte che condanna la Seleccion, ed è un colpo di testa, beffardo, terminato neanche troppo alto, sopra la traversa. La coordinazione, in salto, ricorda l’iconica conclusione che nella notte di Roma ha consegnato la Champions League, e il Triplete, al Barcellona di Pep Guardiola. “Quel” Barcellona di Pep Guardiola. L’esito non è fortunato.

"Sono distrutto", chioserà Messi, dopo essersi sfilato la medaglia d'argento dal collo.

Il cammino di quell’Argentina, comunque, parte da lontano: più o meno da quando Sergio Batista, condannato a ereditare una formazione spiazzata dalle dimissioni di Diego Armando Maradona, affonda insieme all’Albiceleste nella Laguna Setubal di Santa Fe, agli ottavi di finale della Copa America casalinga, contro l’Uruguay nel 2011. Alejandro Sabella in quel momento è a dialogare con l’Al-Jazira, con tanto di stretta di mano finale, poi ritrattata per la scelta dell’AFA di nominarlo nuovo commissario tecnico della Seleccion.

“Pachorra” sa bene cosa vuol dire affrontare un Mondiale con l’Argentina: ha seguito Daniel Passarella fino ai quarti di Francia ’98, guidato dai goal di Gabriel Batistuta e dalle aspettative. Sa anche che, rispetto al 2010, può contare su una generazione di talenti delusi dalla Copa America del 2011 e maturati: la Seleccion che si presenta al Maracanã, in effetti, è un misto tra qualità ed esperienza, con tanti nomi di spicco costretti ad andare in panchina. Sabella non ha un reparto difensivo fortissimo, forse questo lo penalizza, ma dalla mediana in su ha, nell’ordine: Mascherano e Biglia a centrocampo, Perez, Messi e Lavezzi sulla trequarti. Higuain punta. In panca: Fernando Gago, Sergio Aguero e Angel Di Maria.

Per “El Fideo” quello è l’anno della “Decima” Champions League conquistata con la maglia del Real Madrid a Lisbona, grazie anche e soprattutto al suo assist per Gareth Bale, sottovalutato e perso nel 4-1 finale. Non importa: la sua esperienza ai Blancos è giunta al termine. Dopo i Mondiali andrà al Manchester United, cambiando campionato e Paese: una bella botta di coraggio, insomma, se pensiamo a come andrà a finire. Al rapporto disastroso con Louis van Gaal che lo costringerà a far di nuovo le valigie e partire per Parigi, verso la sua rinascita.

Lui a Santa Fe c’era, così come a Cape Town, quando l’Argentina di Maradona subisce le quattro reti della Germania che costano l’eliminazione dai Mondiali sudafricani, ai quarti. Ha il dente avvelenato come pochi: e, segno del destino, sigla anche il goal che qualifica l’Albiceleste ai quarti di Brasile 2014. Un mancino in buca d'angolo, ai tempi supplementari. Esultanza classica: “El Fideo” giocherà la gara successiva col Belgio. In semifinale e in finale seguirà i compagni dalla panchina: più per sfortuna (e una condizione fisica non straordinaria), che altro.

Quella formazione, comunque, fa tutto quel che deve fare per coronare il suo sogno: risorge dalle ceneri del 2011 con fare orgoglioso e vince la fase a gironi, a pari punti, battendo Bosnia, Iran e Nigeria. Detto della Svizzera, supera il Belgio con una rete del "Pipita". Qui si ferma l'esperienza, in campo, di Di Maria.

Ci penserà al “Lusail Stadium”: ci penserà, mentre guarderà gli altri negli spogliatoi, incrociando Lionel Messi. Leo: lui, il solo a condividere con “El Fideo” i ricordi e gli incubi di quella notte di Rio de Janeiro. Sono rimasti in due, al loro ultimo Mondiale: per la “Pulga” il discorso è diverso.

“Que mira bobo?”.

È bastata una frase a far cambiare radicalmente la concezione che un’intera Nazione (per intenderci, le parti che negli anni hanno formato una sorta di resistenza, anche perché le altre erano già state convinte) ha avuto di Leo. Da “pecho frio” a caudillo. Da “senza cuore” a uomo del popolo, che si intesa la rivoluzione: prima, però, non era del tutto così.

Sabella Messi WC 2014Getty

A Rio, ad esempio, Messi è ancora il “corpo estraneo” sui cui fa affidamento l’Argentina, dubbiosa sul suo attaccamento e il suo peso nelle partite che contano: lo si nota dagli atteggiamenti, dalla mimica che segue le occasioni sciupate. Eppure i suoi goal in Brasile li ha segnati: quattro, tutti nella fase a gironi, a cui si aggiunge il rigore trasformato contro l’Olanda in semifinale. Match che verrà ricordato anche per la parrucca indossata da Pablo Zabaleta, in festa.

Al Maracanã gioca una di quelle partite che finiscono dritte nella sezione delle esperienze “terminate troppo presto”, nonostante i centoventi minuti. È il capitano, ma quasi non si nota: anche dopo lo scontro tra Neuer e Higuain è palese che, in realtà, i veri leader siano altri. Lui si limita a chiedere spiegazioni a Rizzoli, nell'episodio che mette la parola fine alle speranze Albiceleste, già compromesse dai pesantissimi errori di Higuain nella prima frazione di gioco.

Tutto un altro Leo: una vita fa. Quando con Di Maria ha vissuto una delle notti peggiori della sua carriera: le finali di Copa America del 2015 e del 2016 faranno eco alla tragedia sportiva. Quella del 2021, invece, li restituirà al calcio e al loro percorso che li ha condotti di nuovo lì a giocarsi un Mondiale. Insieme, come nel 2014: alla ricerca della definitiva redenzione. E consacrazione.

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