Se si pensa agli sport statunitensi non è probabilmente il soccer la prima cosa che viene in mente. Football, basket e baseball per anni sono entrati nelle nostre case raccontandoci di un’America e di un modo di vivere lo sport molto diverso dal nostro.
Se oggi tuttavia è tutt’altro che insolito vedere giocatori statunitensi approdare in Europa o calciatori di ogni parte del mondo approdare in MLS, c’è stato un periodo, che tra l’altro si è protratto per diversi decenni, nel quale semplicemente sapeva quasi di ‘stonatura’ abbinare le parole calcio e America.
E’ anche per questo motivo che quando l’8 giugno 1990 hanno preso il via i Campionati del Mondo organizzati in Italia, tra le squadre ad attrarre maggiore interesse in assoluto c’era quella statunitense. Gli USA infatti, non si qualificavano ad un Mondiale dal lontano 1950 e vedere quindi all’opera gli ‘Stars & Stripes’ era semplicemente un’attrazione.
Per tanti infatti che si chiedevano se quei giocatori sarebbero stati capaci di competere contro i migliori al mondo, c’era chi all’epoca già pronosticava con assoluta certezza caterve di goal subiti e magre figure destinate a restare nella storia.
La curiosità degli appassionati italiani venne presto soddisfatta. Gli Stati Uniti vennero infatti inseriti insieme a Italia, Cecoslovacchia ed Austria nel Gruppo A e, sebbene gli uomini guidati da Bob Gansler esordirono con un pesante 5-1 patito a Firenze contro Skuhravy e compagni, nelle due restanti partite contro azzurri e austriaci, dimostrarono in realtà di non essere poi così male, rimediando due sconfitte onorevoli e di misura.
Quello di Italia ’90 è stato un Mondiale passato anche alla storia per un altro particolare: furono tanti i grandi personaggi che si misero in mostra in quel torneo. Ogni Nazionale aveva un suo uomo copertina e se per l’Italia il simbolo delle notti magiche diventò a sorpresa Totò Schillaci, furono Maradona, Matthaus, Milla, Gascoigne, Stojkovic, Gullit, Zavarov e Valderrama, solo per citarne alcuni, i campioni che attirarono su di loro le luci dei riflettori.
La stella degli Stati Uniti era il loro portiere: Tony Meola. Capelli lunghi, fisico massiccio, cognome italiano e anche una certa bravura tra i pali, contribuirono a fare di lui uno dei personaggi più amati di quei Mondiali.
Di lui si sapeva poco, se non che aveva giocato soprattutto a livello universitario e che suo padre Vincenzo era di Torella dei Lombardi e da giovanissimo aveva militato nell’Avellino, prima di trasferirsi con la sua famiglia negli USA.
In realtà alle spalle del ventunenne Meola c’era un cammino nel mondo dello sport molto più complesso e fatto di tappe che l’avevano portato ad essere considerato un potenziale campione in varie discipline. Durante il liceo si era messo in mostra come portiere, riuscendo a tenere inviolata in ben 41 occasioni la sua porta, ma era stato anche un ottimo attaccante capace di segnare 42 reti. Era stato inoltre capitano della squadra di basket all’università e soprattutto si era guadagnato le attenzione dei New York Yankees che gli offrirono anche un contratto da catcher.
Calcio, basket e baseball, Tony Meola aveva ampiamente dimostrato di poter eccellere in varie discipline, ma alla fine optò per quella meno praticata negli USA e questo anche per far felice suo padre.
“Quando ci qualificammo per i Mondiali non capimmo nemmeno qual era stata la portata dell’impresa. Si era anche sparsa la voce che qualora non ci fossimo riusciti, la FIFA avrebbe potuto rivedere l’assegnazione dei Mondiali del 1994. Io nel giro di pochi mesi mi sono ritrovato dal campus del college a giocare i Campionati del Mondo nel Paese dei miei genitori e tra l’altro contro l’Italia. Italia ’90 mi rese famoso”.
Se i Mondiali italiani lo fecero diventare una sorta di celebrità a livello internazionale, le sue prestazioni a USA ’94 contribuirono a farlo diventare una leggenda del calcio statunitense. La sua Nazionale si presentò infatti ai Campionati del Mondo di casa con maggiori ambizioni e lui di quel gruppo non era solo l’uomo più in vista, ma anche il capitano.
GettyGli USA riusciranno questa volta a qualificarsi per la fase ad eliminazione diretta grazie un pareggio contro la Svizzera, una storica vittoria contro una Colombia ritenuta da molti una delle compagini più talentuose del torneo ed una sconfitta di misura contro la Romania.
Il cammino degli Stati Uniti si interromperà poi negli ottavi di finale contro quel Brasile che poi si sarebbe laureato campione del mondo (1-0 con goal di Bebeto al 72’), ma ormai il grande obiettivo dei vertici del calcio mondiale era stato raggiunto: il soccer non era mai stato così popolare negli USA.
Meola ha quindi la possibilità di diventare una delle stelle di prima grandezza, nonché volto, di quella MLS che era stata già fondata nel 1993 e che nel 1996 avrebbe preso ufficialmente il via ma, proprio quando ormai la sua carriera sta per assumere contorni ancora più importanti e definiti annuncia una decisione clamorosa: vuole lasciare il calcio per dedicarsi al football americano.
Bora Milutinovic, l’allora commissario tecnico degli Stati Uniti, non prende benissimo la cosa: non lo chiamerà più in Nazionale nel corso del suo mandato. Ormai però nulla può spingere Meola a guardarsi indietro, e questo anche perché ad attenderlo c’è la possibilità di unirsi ad una squadra di NFL: i New York Jets.
Proprio quell’anno la National Football League aveva pensato di spostare la linea del kickoff dalle 35 alle 30 yard e di abbassare il ‘tee’. L’idea dei Jets fu quindi quella di valutare se Meola, che nel corso della sua carriera aveva dimostrato di avere un calcio potentissimo che spesso si traduceva in rinvii fino all’area di rigore avversaria, potesse riuscire a far volare il pallone ovale così come riusciva a far schizzare via dal suo piede quello da calcio.
Tony Meola avrebbe quindi dovuto giocare da ‘kicker’ e nelle idee dei tecnici delle ‘squadre speciali’ a lui sarebbe toccato il kickoff, mentre il leggendario Nick Lowery, che ormai andava per le 38 primavere ed aveva perso parte della sua potenza, si sarebbe dovuto limitare ai ‘field goal’, ovvero a calciare tra i pali.
La decisione del portiere venne aspramente criticata da molti, visto che nel momento stesso in cui stava per esplodere, il soccer si riscopriva orfano di uno dei suoi simboli, ma ormai l’operazione 'Pony Tailed Place Kicker’ (così venne ribattezzata in onore della nota pettinatura con ’coda di cavallo’ di Meola) era partita.
“I Mondiali erano appena finiti e mi diedero del traditore. Dicevano che per colpa mia rischiava di morire il sogno del soccer in America. Dissero che non mi bastava la fama che il calcio mi aveva dato, che ero un irrequieto e che il mio vero obiettivo era sfondare ad Hollywood”.
Meola si unisce ai Jets per la pre-season, ma purtroppo per lui le cose non vanno come aveva sognato. I suoi tiri non si riveleranno né potenti né precisi tanto che, per quella sua tendenza a calciare sempre verso sinistra, si guadagnerà il soprannome di ‘Capitan Uncino’.
A rendergli le cose più complicate anche il fatto che il suo collega Lowery non avrà più la potenza di un tempo, ma a livello di precisione viene ricordato come uno dei migliori di sempre. Il paragone si fa insomma impietoso.
Getty ImagesA Meola basta in realtà poco per capire che un pallone da football va calciato in maniera molto diversa da un pallone da calcio e che fondamentalmente ci sono pochissime affinità tra i due gesti tecnici.
“Non è una cosa impossibile, ma non è nemmeno facile come sembra. Tra l’altro una cosa è calciare, un’altra è farlo mentre un ragazzone di 150 chili ti corre contro a tutta velocità. Se calci male un pallone da calcio, comunque lo spedisci ad una cinquantina di metri di distanza, mentre il punto esatto dove colpire una palla da football è così piccolo che o calci bene o male. Non ci sono vie di mezzo. C’è la stessa differenza che calciare un pallone ed una moneta da 50 centesimi”.
Nonostante gli sforzi, Meola verrà tagliato dopo appena tre partite di pre-season. L’idea sulla carta non era male, ma l’operazione fallì miseramente.
“Ho realizzato un sogno, anche se è durato poco. Devo comunque dire che è molto più divertente giocare a calcio che tirare un pallone e basta”.
Chiuso con il football e svanita la possibilità di giocare in NFL tornerà al suo primo amore e diventerà realmente uno dei volti della MLS, vestendo le maglie le maglie di New York Metrostars, Kansas City Wizards e New York Red Bulls.
Salterà i Mondiali del 1998, ma ritroverà la Nazionale l’anno successivo e, pur avendo perso il suo status di titolare inamovibile, riuscirà a partecipare ai Campionati del Mondo del 2002 (da terzo portiere) e a raggiungere nel 2006, l'anno del suo ritirro dal calcio professionistico, quota 100 presenze con gli USA. Ancora oggi è considerato una delle prime vere stelle del soccer oltre che un’autentica leggenda nel suo Paese.
