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HOWARD GFXGOAL

La storia di Tim Howard, il portiere con la Sindrome di Tourette divenuto leggenda americana

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I muscoli del volto si contraggono involontariamente disegnando espressioni che, ai più, possono perfino apparire buffe. Il corpo viene pervaso da tic e movimenti incontrollati. La capacità di concentrazione cala drasticamente. E per fortuna non prova l'impulso irrefrenabile di imprecare. Ma Tim Howard, ormai, quasi non ci fa più caso. Ha imparato a convivere con tutto questo, come se fosse una seconda pelle, come un marchio da esibire. Non è esattamente un orgoglio, va da sé: è più che altro un tratto distintivo, che però non gli ha impedito di diventare qualcuno di importante.

Howard è uno degli eroi calcistici a stelle e strisce. E ha la Sindrome di Tourette. Praticamente da sempre, sin da quando era piccolino. Soffre di spasmi che non lo hanno mai abbandonato, nemmeno durante una partita, nemmeno davanti a cinquanta o sessantamila spettatori. La sua storia la conoscono in tanti. Non è stato facile arrivare dov'è arrivato: in Europa, in Premier League, a giocare un Mondiale.

“Avevo 10 anni quando iniziarono a comparire i sintomi – ha scritto Howard nella propria autobiografia, 'The Keeper' – Prima di tutto, i tocchi: camminavo per la casa toccando alcuni oggetti in un ordine particolare. Toccavo la ringhiera. Toccavo il telaio della porta. Toccavo l'interruttore della luce. Toccavo il muro. Toccavo una fotografia. Lo schema poteva variare, ma c'era sempre un ritmo specifico che doveva essere seguito. Esattamente. Se non lo era – se cercavo di resistere – dovevo ricominciare tutto da capo, finché non ci riuscivo. Non importava se stavo morendo di fame e la cena era sul tavolo. Non importava quanto avessi bisogno di andare in bagno. Dovevo obbedire allo schema nella mia testa. Dovevo toccare queste cose, ed esattamente in questo ordine. Era urgente. Una parte del mio cervello, la parte logica, capiva che questi rituali erano irrazionali, che non sarebbe successo niente di male se non li avessi praticati. Ma saperlo non faceva che peggiorare le cose. Se non era razionale, perché non riuscivo a smettere? Cosa c'era di sbagliato in me?”.
“Poi sono arrivati i tic. Iniziavano sempre allo stesso modo: con una sensazione di disagio in una parte del mio corpo, come un impulso. Una sensazione che poteva essere alleviata solo da qualche azione motoria specifica. Ho iniziato a sbattere le palpebre, per esempio, ammiccamenti violenti e deliberati che non riuscivo a fermare. Ho cominciato a schiarirmi la gola più e più volte. Poi gli scatti facciali. Un'alzata di spalle. Gli occhi al cielo. Ogni volta era lo stesso schema: quella terribile sensazione che sgorgava e che poteva essere alleviata, inspiegabilmente, solo da qualche azione. Appena lo facevo, mi sentivo di nuovo normale. Ma pochi secondi dopo, il ciclo si sarebbe ripetuto. Sensazione terribile. Accumulo di stress. Azione. Sollievo. A scuola, gli insegnanti mi prendevano in giro: stai fermo. Smettila di schiarirti la gola. Gli altri bambini ridevano. Cosa sta succedendo alla tua faccia? A casa la mamma rimaneva in silenzio, ma sapevo che mi guardava. Vedevo che i suoi occhi si concentravano su qualunque parte del mio corpo avessi mosso, il barlume di preoccupazione che le passava sul viso”.

I tic di Howard, gli spasmi, non sono mai venuti meno. Neppure con la fama, neppure in uno stadio pieno. Anzi. Nel 2013 Howard ha concesso una lunga intervista al quotidiano tedesco 'Der Spiegel', spiegando nel dettaglio come si senta su un campo verde, e con migliaia di occhi puntati su di sé, un portiere con una Sindrome di Tourette.

“Non ho mai contato i tic. Arrivano sempre, senza alcun preavviso, e aumentano man mano che si avvicina una partita importante. Arrivano in misura maggiore quando sono particolarmente nervoso. Lì il mio corpo diventa più teso del solito, i miei muscoli si contraggono più spesso e con maggiore frequenza faccio movimenti frettolosi. Finché il gioco non si sta svolgendo proprio davanti al mio naso, ma da qualche parte a centrocampo, lascio che il mio corpo si agiti. Non provo nemmeno a reprimerlo. Quando la palla mi si avvicina, torno in me. È strano. Appena le cose si fanno serie davanti alla mia porta, non ho spasmi. I miei muscoli mi obbediscono. Com'è possibile? Non ne ho idea. Nemmeno i medici riescono a spiegarselo. Probabilmente perché in quel momento la mia concentrazione sulla partita è più forte della sindrome di Tourette”.
Tim Howard USA 06162014Getty Images

Ha vinto i pregiudizi, Howard. Sin dai suoi primi passi nel mondo del pallone. E il merito primario è di Tim Mulqueen, un ex (modesto) portiere divenuto assistente allenatore e poi coach. Un giorno Mulqueen nota quel dodicenne, grezzo ma potenzialmente qualitativo. Lo prende sotto la propria ala, gli insegna i trucchi del mestiere. Una volta paga lui i 25 dollari che la madre è restia a sborsare per una delle sedute d'allenamento. "È giusto dire che questo libro, ma in realtà tutta la mia vita, sarebbe molto diverso se non ti avessi conosciuto – ha scritto Howard in 'The Keeper', rivolgendosi a Mulqueen – Sei stato un allenatore, un mentore e un caro amico". Una trentina d'anni più tardi, però, i due si sono ritrovati a Memphis, uno portiere-direttore sportivo e l'altro allenatore. E nel 2020 Howard ha contribuito all'esonero di Mulqueen perché “i risultati non arrivavano e avevamo bisogno di una ventata d'aria fresca”. Le ironie della vita.

Il legame, però, rimane. Perché grazie agli insegnamenti di Mulqueen, Howard scala ben presto le gerarchie. Tanto da essere notato non solo dai New York Metrostars, antesignani dei New York Red Bulls, ma addirittura dal Manchester United. A 24 anni, il ragazzo con la sindrome di Tourette si ritrova un biglietto della lotteria tra le mani. La Manchester rossa significa Premier League, significa Champions League, significa gloria e dominio. Ma significa anche pregiudizi. Al suo arrivo, più di un tabloid lo accoglie in maniera impietosa e sprezzante: qualcuno gli dà del ritardato, altri dell'invalido, altri dell'handicappato.

Calcisticamente, è il periodo più complicato e delicato della carriera di Howard. L'ombra di Peter Schmeichel, andatosene qualche anno prima senza lasciare un vero erede tra i propri pali, lo perseguita. E una serata in particolare segna l'inizio della fine. 9 marzo 2004, Manchester United-Porto, ritorno degli ottavi di finale di Champions League. Lo United conduce per 1-0 ed è pronto a staccare il biglietto per i quarti. Ma al 90' accade l'impensabile: Howard si lascia scappare in maniera maldestra un pallone innocuamente calciato su punizione da Benni McCarthy, Costinha è in agguato e mette dentro da un passo. José Mourinho corre impazzito a far festa coi suoi, in un flash entrato nella storia della competizione. Porto avanti, Red Devils eliminati. Che prenda il via il processo contro Howard, il portiere che non è come tutti gli altri.

“In generale, la mia prima stagione allo United è stata fantastica – ha detto l'americano nell'ottobre del 2021 al sito del club – Ma c'è stata una macchia enorme, ovvero la partita di Champions League contro il Porto all'Old Trafford. Nel corso degli anni mi sono reso conto di di aver dato il via alla carriera di José Mourinho (sto scherzando), ma all'epoca non ero in grado di comprendere l'entità dell'errore. Per quanto mi riguardava, avevo parato la punizione iniziale. Capivo che la gente pensasse che fosse un errore: quel che non capivo era il fatto di accanirsi contro di me”.

Il trasferimento all'Everton, nel 2006, rappresenta la salvezza. Howard smette di lottare per i più grandi traguardi, ma guadagna tranquillità. E diventa un'icona del club. Una relazione lunga, fruttuosa. Vera. Il portiere rimane nella Liverpool blu per 10 anni e nel mezzo straccia pure un record mica male: quello della rete segnata da più lontano nella storia (87 metri), il 4 gennaio 2012 in un Everton-Bolton finita 2-1 per gli ospiti. Howard rilancia dalla propria area e incredibilmente inganna Bogdan. Senza esultare, per una questione di rispetto nei confronti di un collega. Per la cronaca, il primato sarà a sua volta superato da Asmir Begovic nemmeno due anni più tardi (92 metri).

L'altro record è roba leggermente più recente. Mondiali 2014, Belgio-Stati Uniti, ottavi di finale. In sostanza, è una partita che non ha storia: De Bruyne e compagni sono troppo superiori rispetto agli americani. Ma finisce solo 2-1 per i belgi. E dopo i supplementari. Il merito? Di Howard, che respinge l'impossibile. Una parata, due parate, tre parate. Alla fine saranno 16, primato assoluto in una partita della Coppa del Mondo. Il tweet di Vincent Kompany alla fine di quel match è stringato, ma vale come un poema:

“Due parole: Tim Howard”.

Howard, oggi, lo conoscono tutti. Non per i suoi tic. Non per i suoi involontari movimenti facciali. Lo conoscono perché è diventato il più grande portiere della storia degli Stati Uniti, recordman di presenze in Nazionale (121), uomo guida di un intero movimento. E poi, certo, la Sindrome di Tourette rimane. Ma il quarantatreenne di North Brunswick ha imparato ad accettarla, a spiegarla e – perché no? – anche a riderci su.

“Una delle cose migliori che posso fare è essere sotto i riflettori – ha detto in un'intervista a 'Neurology Now' – Vado in televisione, con i miei tic e i miei spasmi. Ed è pure figo”.
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