C’è una famosa frase di William Shakespeare che vale la pena ripescare, per comprendere meglio le righe che seguiranno: “Chi ha la barba è più che un giovane, e chi non ha la barba è meno che un uomo”. La via di mezzo, probabilmente, si lega bene a una personalità “in via di sviluppo” caratteriale. In crescita, appunto. La fisionomia di Luciano Spalletti spinge a riflettere, in qualche modo, sul concetto di sapienza e maturità applicata alla barba in sé, che oltre a essere un perfetto metro di misurazione anagrafica (come lo era per Shakespeare in “Molto rumore per nulla”, ad esempio), è anche e simbolicamente uno dei più sintetici simboli di potere, almeno per gli antichi.
Prima delle conferenze zeppe di metafore, arricchite di settimana in settimana da un clima sempre più tendente alla consapevolezza della vicinanza del traguardo raggiunto, dopo una vita trascorsa a immaginarlo, persino sfiorarlo in un caso, prima insomma dell’era aperta da una delle più note e cariche frasi proferite da un allenatore di calcio, “Uomini forti, destini forti; uomini deboli, destini deboli”, sul viso di Luciano Spalletti sono stati presenti, alternatamente, una sottilissima “mosca” sotto il labbro inferiore e un pizzetto pronunciato. Per diversi anni, anche nulla: tant’è che il 28 novembre 2010 sembra di trovarsi di fronte a un monaco tibetano. A petto nudo, con una collana al collo (che altro non è che un rosario) e la particolarità di trovarsi a festeggiare tra i presenti ricoperti da più strati d’abiti, sciarpone e guanti. Con la neve a terra e una temperatura media (giornaliera) di circa zero gradi.
Descrivere l’esperienza in Russia di un uomo che viene da Certaldo potrebbe richiedere più pagine di quelle che in realtà abbiamo a disposizione, e per questo motivo proveremo a essere sintetici. Delle dieci giornate del Decameron, vista la facile citazione a Boccaccio, che con Spalletti condivide i natali, i temi della prontezza di spirito e della nobiltà d’anima, pur sena approfondire la questione di Federigo Degli Alberighi, sono i prescelti per iniziare a contestualizzare le premesse dei successi degli unici due titoli di massima serie finora conquistati. Perché, al netto della scaramanzia del caso (già messa da parte dai tifosi del Napoli, che i tre Scudetti li hanno già raffigurati in alcune bandiere che sventolano in giro), “finora” è il termine giusto per parlare di una parte di carriera che sembra finalmente essere giunta alla fantomatica “chiusura del cerchio”.
In ogni caso, Spalletti arriva al settembre del 2009 con qualche ruga in più, venti goal in quattro gare di preliminari di Europa League (venti, sì) e due sconfitte contro Genoa e Juventus in campionato, che lo portano, forse per stanchezza, a rassegnare le dimissioni da allenatore della Roma. Incredibilmente: dietro a quella che sembra una decisione più personale che legata effettivamente ai risultati d’inizio stagione si cela quel fondo di onestà d’animo espressa pubblicamente, pochi giorni prima, dopo la sfida persa all’Olimpico contro i bianconeri di Ciro Ferrara.
“C’è una cosa di cui mi sono pentito, tra quelle che ho fatto da maggio, ma non la posso dire”.
Per comprendere meglio queste parole bisogna fare un ulteriore passo indietro. Ad agosto, sempre nel 2009, il “Tvoi Den” e il “Sovietsky Sport” si smentiscono a vicenda, proprio mentre in Italia i tifosi della Roma si godono le vacanze estive: per il primo Luciano Spalletti avrebbe accettato la proposta dello Zenit di nominarlo allenatore al posto di Dick Advocaat; per il secondo, invece, il nuovo tecnico dei russi sarà Roberto Mancini.“Smentisco categoricamente non solo l’accordo, ma anche qualsiasi contatto: sono illazioni, a tutti gli effetti sono e resterò l’allenatore della Roma”, frase a cui Spalletti fa seguire una risata, al termine dell’amichevole con il Grosseto. Alla fine, a guidare lo Zenit sarà Anatoliy Davydov.
GettyC’è, però, la sensazione di trovarsi di fronte a una bizzarra coincidenza. E in effetti a metà dicembre da San Pietroburgo viene diffuso un comunicato. Oggi, grazie a una banale ricerca su Google Maps, sappiamo che ci vogliono trentaquattro ore filate in auto per raggiungere la seconda città della Russia (per abitanti e dimensione) da Certaldo, guidando per quasi tremila chilometri: nessuno, probabilmente, proverà mai a confermare o smentire la stima delle mappe. Resta comunque una distanza enorme: a metà di quel dicembre del 2009 Spalletti la colma in aereo, restituendo un senso alle dimissioni da allenatore della Roma.
Lo Zenit ereditato da Advocaat è una formazione assai diversa, nello spirito, da quella che poco più di un anno prima aveva conquistato la Coppa UEFA battendo in finale i Rangers all’Etihad (allora ancora “City of Manchester”) Stadium: non c’è più Anatoliy Tymoshchuk, volato in Baviera nel luglio del 2009, ma neanche Andrey Arshavin, che la Russia l’ha lasciata a febbraio per trasferirsi all’Arsenal. Dall’estate, però, c’è Alessandro Rosina, che ha dato l'addio al Torino. Sì, insomma: un paio di giocatori interessanti Spalletti li ha. Torna anche Aleksandr Kerzakov, sulla trequarti gioca Danny. Che, poi, è colui che segna il primo goal dell’esperienza russa dell’allenatore di Certaldo, in un Krylya Sovetov Samara-Zenit 0-1 disputato con un 4-2-3-1, ma con Rosina in panchina. Ci sta.
Prima del 16 maggio 2010, comunque, Spalletti aveva vinto, nell’ordine: una Coppa Italia di Serie C con l’Empoli nel 1996, una Coppa Italia con la Roma nel 2007 a cui era seguita la Supercoppa italiana e un’altra Coppa Italia con i giallorossi nel 2008. A maggio, il 18, dello stesso anno si era visto soffiare lo Scudetto “a distanza” dall’Inter, impegnata sotto il diluvio del Tardini contro il Parma. Lui, che l’aveva accarezzato quando nei primi minuti Mirko Vucinic ha battuto Albano Bizzarri: il pareggio del Catania, arrivato nel finale con il “Malaka” Jorge Martinez era stato quasi indolore. Il Tricolore era andato. La Coppa di Russia che arriva a metà maggio del 2010, con una rete su rigore di Roman Shirokov contro il Sibir Novosibirsk, ha un sapore diverso: se c’era un modo per dimostrare che il percorso di uno dei più apprezzati tecnici italiani non si era fermato al “Massimino”, con lo Scudetto perso all’ultima giornata, quello prevedeva una vittoria pochi mesi dopo il suo arrivo allo Zenit.
Tra i difensori del club di San Pietroburgo figurava anche un certo Fernando Meira: una buona carriera, caratterizzata dalla vittoria in Bundesliga con lo Stoccarda nel 2007, da capitano. A distanza di tredici anni dalla sua prima esperienza allo Zenit con Spalletti allenatore ha deciso di rompere il silenzio e offrire una lettura diversa a quanto tramandato sul tecnico di Certaldo.
“Tutto quello che si faceva in campo era subordinato alle idee di Spalletti, ma aveva un difetto: trattava i russi meglio dei calciatori stranieri. E invece avrebbe dovuto trattare tutti allo stesso modo”, ha spiegato a Championat.com, alludendo al fatto che non fosse un motivatore.
In verità, al netto dei discorsi del buon Meira, quanto realizzato nel novembre del 2010 trova una spiegazione solo nel fatto che sì, ok, avrà pur trattato i russi meglio degli altri, ma un campionato non si vince solo con la tattica e il bel gioco. Si vince anche con la capacità di trasmettere i giusti concetti alla squadra: che non può non seguire un uomo che con zero gradi butta via gli abiti per andare a festeggiare, a petto nudo con i tifosi, la conquista del suo primo titolo nazionale in carriera. Il campionato russo.
Dicevamo della barba: nel 2011 internet è ancora quel posto metaforico in cui i forum hanno la precedenza sui social. Che poi, in quel periodo, equivalgono genericamente, quasi per approssimazione, a Facebook: roba da “Poker-face” e “Trololo”. Quei livelli lì. È anche per questo motivo che uno dei più famosi meme calcistici italiani viene fuori parecchi anni dopo, quasi in concomitanza con “Uomini forti, destini forti; uomini deboli, destini deboli”. Spalletti, con una mosca che scorre perpendicolarmente al labbro, forse fa finta di comprendere quanto detto dal giornalista, al termine di Dinamo Mosca-Zenit. Poi, grazie all’aiuto del traduttore, realizza.
“Ma che emozioni? Ma che emozioni? Ma che ca*** di emozioni?”.
Alla rete del vantaggio di Danko Lazovic, uno degli attaccanti schierati da Spalletti, pareggia Aleksandr Samedov, ma dopo il quarto dei quattro minuti di recupero. Sono due gli aspetti divertenti dell’intervista: il primo riguarda la caparbietà dell’interprete nel tradurre letteralmente il “Ma che emozioni?” del tecnico di Certaldo, il secondo è legato alla differenza palese tra quell’allenatore lì e quello che siamo soliti vedere alla guida del Napoli. Più calmo, più lucido: più “sottile”, anche nelle risposte “a caldo”.
Simbolicamente, però, la Dinamo Mosca diventa, pochi mesi dopo, la co-protagonista del 2-1 che vale il secondo campionato vinto (a fine aprile 2012) da Luciano Spalletti con lo Zenit, in una stagione infinita, con quarantaquattro partite totali disputate a causa dell’adattamento del format a quelli classici, europei (prima la stagione nazionale si sviluppava nel corso dello stesso anno solare).
“È un piccolo capolavoro: ricordo quando arrivai qui due anni e mezzo fa, un po’ d’apprensione c’era. Ora mi sento diverso, cambiato e rafforzato da quest’esperienza”, ha raccontato a La Repubblica.
Con gli anni il pizzetto si è trasformato in barba: che, poi, è ciò che gli ha conferito la saggezza necessaria per affrontare al meglio gli ultimi anni di carriera che lo hanno condotto alla panchina del Napoli. Festeggiare a petto nudo al “Maradona”, a giugno, è un po’ diverso dal farlo al vecchio “Petrovskij” a novembre. Forse, scaramanticamente, è presto per parlarne: c’è ancora spazio per diverse emozioni. “Ma che emozioni?”.




