Paulo Cézar Caju riceve palla spalle alla porta e di tacco, con una giocata tipica del proprio stile di gioco, la fa sfilare verso Bob Marley. Questi calcia in porta di prima intenzione, andando a segno con un destro pregevole. E si prende applausi convinti. Anche se di mestiere fa il cantautore, non certo il calciatore come l'autore dell'assist. Anche se la sua mission è quella di intrattenere le persone con un microfono, una chitarra e la melodia della voce, mica con un pallone tra i piedi. E anche se a osservare la scena non c'è che una manciata di persone, tra cui qualche giornalista chiamato per l'occasione.
Eppure la scena in questione, entrata prima nella storia e poi nella leggenda, è accaduta davvero. A Rio de Janeiro, nel quartiere della Gávea. Nel 1980, Bob Marley è in Brasile per l'inaugurazione della filiale di una casa discografica, l'Ariola Records. Al suo seguito ci sono il produttore Chris Blackwell e la moglie Nathalie, l'ex consorte di Alain Delon. Bob è un personaggio semplice, umile. E ama follemente il pallone. Una decina d'anni prima è stato folgorato dalla bellezza del Brasile campione del mondo in Messico. Quello del re Pelé, di Jairzinho, di Rivelino, di Tostão, tutti insieme appassionatamente. E di Paulo Cézar Lima, detto Caju, una sorta di dodicesimo uomo di quell'impressionante macchina di calcio e spettacolo.
Bob Marley ha una richiesta particolare per quel viaggio di lavoro brasiliano: vuole giocare una partita. Una pelada, come la chiamano laggiù. Niente di serio, una di quelle classiche sfide tra amici su un campo composto un po' d'erba e molto di terra. E viene accontentato. La partita si gioca nel campetto di proprietà di Chico Buarque, il compositore. Vi partecipano il chitarrista dei Wailers, il gruppo di Marley, oltre al cantante e chitarrista Toquinho e ad altri musicisti e personaggi che lavorano per la casa discografica. Più Caju, "anche se a me il reggae nemmeno piaceva". Però come si fa a rifiutare? “Ero l'idolo di Bob”, ha ricordato l'ex calciatore, rivelando che ci pensava Nathalie a far la traduttrice dal suo francese all'inglese di Marley e che quest'ultimo “non se la cavava neppure male” con una palla.
Il legame tra i due, tra Brasile e Giamaica, tra calcio e musica, va in realtà al di là del pallone stesso. Paulo Cézar non è solo uno dei più grandi che abbiano indossato la maglia verde e amarela. Non è solo il nostalgico idolo di un intero paese, tra Botafogo, Flamengo, Fluminense e le mille e mille altre casacche indossate in carriera. È uno dei primi calciatori concretamente impegnati nella lotta al razzismo. Non sopporta, non ha mai sopportato la disparità di trattamento tra persone bianche e persone di colore. Negli anni della dittatura militare non è mai visto di buon occhio, ma va sempre dritto per la propria strada. Dice quel che pensa e agisce di conseguenza. Arriva ad accusare Pelé, suo modello da ragazzino e poi suo compagno nella Seleção, di non combattere abbastanza per una battaglia così importante. Nel 2010 se la prende anche con Neymar quando questi dichiara, attirandosi tutte le critiche possibili, di “non aver mai conosciuto il razzismo, anche perché mica sono nero”.
“Di che colore è Neymar? – sbraita Caju alla 'Folha de São Paulo' – Per l'amor di Dio! Eccola la differenza tra gli americani e i brasiliani. Gli americani dicono: 'Io sono nero'. Non si sentono mulatti. C'è la razza nera, quella bianca e quella gialla. Neymar che cos'è, giallo?”.
L'apelido, il soprannome che gli rimarrà appiccicato per tutta la vita, come un marchio, deriva esattamente dalla propria ideologia. Nel 1968 Paulo Cézar si reca negli Stati Uniti e fa la conoscenza delle Pantere Nere, il movimento afroamericano che si batte per i diritti delle persone di colore. E per imitarle inizia a colorarsi i capelli di rosso. Lo fa anche durante un torneo disputato dal Brasile in America nel '70. Qualcuno lo prende in giro: sembri un caju, il frutto tropicale brasiliano da cui deriva l'anacardo.
Eppure la presa di posizione di Caju è tremendamente seria. Anche perché la discriminazione inizia sin da subito a far parte della sua vita. Da ragazzino va a trovare la madre sul posto di lavoro, ma è costretto a intrufolarsi dalla porta secondaria per non essere visto. Una volta, assieme al Botafogo, si reca a una premiazione in un country club del Rio Grande do Sul. Ma all'ingresso è appeso un avviso in bella vista: qui i neri non possono entrare. Sono i giocatori bianchi della rosa a forzare la situazione, permettendo ai compagni di colore e ai loro parenti al seguito di partecipare alla cerimonia.
“In carriera mi sono preso perfino degli sputi in faccia – ha detto alla 'Folha de São Paulo – Ho giocato varie volte contro formazioni argentine, ci chiamavano sempre “macaquito”, “negrito”. Ma contro di loro non ho mai perso. Anche in Brasile mi chiamavano macaco. E io rispondevo mettendomi a palleggiare”.
La storia di vita di Caju segue un percorso comune a quello di tanti altri campioni. E al contempo diverso. Nato in una favela di Rio, non fa nemmeno in tempo a conoscere il papà, morto di cirrosi epatica. I suoi primi amici sono Roberto Antônio dos Santos, che poi diventerà il padre di Juan, l'ex centrale della Roma, e Frederico Rodrigues de Oliveira, con cui gioca a futsal nel Flamengo. Fred è figlio di Marinho Rodrigues, ex difensore di Botafogo e Fla. Fa l'allenatore, Marinho. E quando conosce la storia dell'amico del figlioletto, non esita ad adottarlo per donargli una vita migliore. Quando va ad allenare all'estero porta entrambi con sé, anche in Honduras, dove guida la Nazionale locale, oppure in Colombia o in Perú.
Ma è al ritorno in patria, appena maggiorenne, che inizia a compiersi la leggenda di Paulo Cézar Caju. Esterno sinistro d'attacco, uno dei primi destri a giocare dalla parte opposta del campo, è un funambolo che abbina scaltrezza, rapidità e una qualità tecnica superiore. Ha un dribbling raffinato e raramente si fa portare via il pallone. Proprio per queste sue abilità, unite a una visione di gioco eccellente, nella seconda parte della carriera verrà spostato nella posizione di trequartista o addirittura di centrocampista centrale.
Caju inizia nel Botafogo, poi passa al Flamengo, quindi farà parte sia del Fluminense che del Vasco da Gama. Al Botafogo vince il primo campionato nazionale della storia del club, la Taça Brasil del '68, antesignana del Brasileirão. Al Flu farà parte della Máquina di metà anni settanta, il Tricolor più forte di sempre. Nel 1980 diventerà il secondo nella storia del futebol a indossare le maglie di tutte e quattro le grandi di Rio: un anno prima c'era riuscito per primo il difensore Moisés, che aveva completato il proprio tour dello Stato carioca al Fluminense. Sono anni, del resto, in cui i maxi scambi tra calciatori sono piuttosto normali: l'ambizione dei rispettivi presidenti è che la crescita dei singoli club vada di pari passo con quella complessiva del calcio di Rio de Janeiro. Altri tempi.
Caju ha un carattere irriverente che nel corso degli anni gli attira qualche guaio. Nel 1971 il suo Botafogo sta conducendo il girone del Campionato Carioca con un largo vantaggio sulle inseguitrici. E lui, a poche giornate dalla fine, ha la pessima idea di farsi fotografare con la fascia di campione al petto. Nello stesso periodo, durante una partita di quel torneo, si mette a palleggiare in maniera irrisoria e irrispettosa. Narrano le cronache che, da lì in poi, tutti gli avversari del Botafogo giocheranno alla morte contro la capolista. Anche chi non ha più obiettivi in palio. E il Fogão finirà per crollare vertiginosamente, venendo superato all'ultima giornata dal Fluminense.
Nemmeno del Fla e del Flu, dove comunque vince parecchio, Caju ha soltanto ricordi positivi. In rossonero viene perseguitato dai tifosi, che nel '73, dopo una sconfitta interna, gli distruggono l'auto all'esterno del Maracanã. Tre anni più tardi si trova nello Stato della Paraíba assieme al Tricolor per un'amichevole contro il Treze, formazione locale. Sta passeggiando assieme a un paio di compagni nei pressi dell'hotel dove alloggia la squadra, quando un gruppo di ragazzini del posto inizia a irriderli e offenderli. Caju perde la testa e va ad affrontarli. Nella confusione che ne segue un dodicenne cade a terra, fratturandosi il mento. Il calciatore viene imprigionato e poi liberato il giorno seguente su cauzione.
È un periodo sempre più conturbato per Caju. Anche con la Seleção. Agli strepitosi Mondiali messicani hanno fatto seguito quelli del '74, in Germania Ovest. Il Brasile si è presentato come l'ombra della squadra che quattro anni prima aveva dominato il mondo. E Paulo Cézar si è attirato le antipatie di una buona parte dello spogliatoio, convinto che pensi soltanto a tirare indietro la gamba in virtù dell'imminente trasferimento al Marsiglia. Nel 1978 andrà pure peggio: Caju nemmeno farà parte della spedizione in Argentina, personaggio sempre più indigesto dopo aver reclamato a gran voce un aumento dei premi previsti per la squadra.
In mezzo c'è l'unica avventura europea di rilievo, al Marsiglia. In Francia Caju ritrova l'amico Jairzinho, ma non riesce mai ad adattarsi in maniera completa. Anche se, come ricorderà in seguito, “l'unico contratto eccezionale che ho firmato è stato all'Olympique, gli altri sono stati al massimo buoni”. In campo fa faville, segnando 16 volte in 31 presenze, ma all'esterno inizia lentamente a lasciarsi andare. Il Principato di Monaco è lì, a un paio d'ore d'auto, e il brasiliano non perde l'occasione di andare a far nottata ogni volta che può. È un bad boy del pallone, ama il lusso, si circonda di belle donne. E comincia a far concretamente la conoscenza di quella che diventerà una triste e indesiderata compagna di vita: la cocaina.
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La droga è un serpente che, quando lo attanaglia tra le proprie spire, non gli consente più di divincolarsi. Caju ne fa uso anche negli ultimi anni di carriera: al Corinthians, che al secondo tentativo lo acquista nel 1981 dieci anni dopo aver organizzato una colletta – fallita – tra dirigenza e tifosi, e al Grêmio, dove vince la Coppa Intercontinentale del 1983 contro l'Amburgo. Una volta lasciato il calcio, la dipendenza diventa totale. Caju allontana amici ed ex compagni, rigettando ogni aiuto possibile. E sperpera tutto quel che ha, arrivando al punto di vendere due appartamenti di lusso e la medaglia di campione del mondo conquistata nel 1970.
“Non avete nemmeno idea di che valore avesse per me – ha detto alla 'Globo' nel 2015 – di quello che rappresentava e rappresenta: ma l'importante per me era la cocaina. La medaglia era l'aspetto minore. Io avevo bisogno della droga. In quei momenti non capisci più quello che stai facendo, non avevo un controllo emotivo. Ho venduto perfino la coppa in miniatura della Jules Rimet, l'ho data a un brasiliano che mi ha pagato una somma sufficiente per rifornirmi di droga per un buon periodo. Non so nemmeno io come abbia iniziato a drogarmi. Non l'avevo mai fatto, non bevevo nemmeno. Ho iniziato a sperimentare questa maledetta droga e questo maledetto alcol. A chi ha dei figli e a chi non ha mai provato dico: non fatelo! È dura, è dura, è dura”.
Sul finire degli anni novanta, il regista João Moreira Salles ha diretto una trilogia di documentari sul calcio brasiliano. L'ha denominata “Futebol”, semplicemente. Il terzo documentario l'ha dedicato a Paulo Cézar Caju. Per una settimana ha piazzato le telecamere nell'abitazione e nella vita di un ex calciatore triste, povero, senza un impiego e divorato dai propri demoni. È in quel momento che il Brasile intero si è ricordato di lui, dopo averlo accantonato per quasi due decenni.
Getty ImagesCon fatica, con tutto l'aiuto necessario, Caju ne è uscito. Nel 2006 ha pubblicato la propria autobiografia, “Dei a volta na vida” (sono tornato a vivere), nella quale ha dato nuovamente forma ai propri incubi. Non tutti hanno apprezzato il capitolo in cui racconta la presunta assunzione di doping prima dell'Intercontinentale vinta col Grêmio: da Porto Alegre sono arrivate reazioni e denunce. Tutti, invece, si sono commossi leggendo i capitoli sulla cocaina e sulle difficoltà nel cominciare una nuova vita dopo la carriera di calciatore. Un dramma comune a quello di tanti eroi dell'Azteca.
“Tostão vive recluso – ha scritto Caju nel 2020 sulla rivista PLACAR, che dopo la rottura con 'O Globo' gli ha concesso uno spazio dove esprimere i propri pensieri – Gerson, Riva (Rivelino, ndr), io e credo tutto il gruppo della vecchia guardia, non abbiamo mai assimilato il ritiro. Il calcio era la nostra vita, il nostro amore, il nostro sforzo. Senza un sostegno psicologico o un'offerta di lavoro finiamo per deprimerci. Non è facile rimanere lontani dal calcio”.