
Se chiedete a Leo Messi chi è stato uno dei suoi esempi calcistici, la sua risposta sarà per certi versi sorprendente: PabloAimar. El Payaso. Oppure, per altri, el Mago. Il motivo, lo stesso. La voglia di intrattenere chi guarda. Uno che non ha mai raggiunto la Champions League, che in Europa al massimo ha raggiunto una Coppa UEFA e un paio di campionati con il Valencia, oltre a vincere trofei in patria e Portogallo con il Benfica. Eppure, in Argentina è considerato uno dei più grandi. Non solo perché neanche ventenne era già centrale nel RiverPlate, nonché uno dei prospetti migliori dell’intero calcio argentino. Tanto da meritarsi la scomodissima etichetta di “nuovo Diego” anche dallo stesso Diego. Disattesa, come prevedibile per chiunque non si chiami LionelMessi. Che in Aimar ha visto il faro, l’esempio a cui ispirarsi.
A 17 anni el Payaso è entrato nel River Plate e nel giro delle nazionali giovanili dell’albiceleste, vincendo tutto quello che poteva vincere a livello di Under-20. Sono stati gli unici ori conquistati nella sua carriera con la nazionale: in Copa America al massimo si è messo al collo un argento, nel 2007, in finale contro il Brasile. La penultima partita giocata nella sua carriera con la maglia della nazionale. Quella maglia che ha fatto nascere una profonda amicizia con uno dei suoi più grandi rivali come Riquelme. Rivali in campo, tra River e Boca, tra Valencia e Villarreal. Amici in nazionale, dove a volte giocavano insieme, a volte si alternavano. Lo ha raccontato a 'Goal'.
“I paragoni non mi piacciono e non mi sono mai piaciuti, nemmeno poi quando riguardano altri. Non mi piace chi ‘uccide’ uno per lodare un altro e questa è una cosa molto argentina. Ricordo che Roman ha giocato nel Villarreal ed io nel Valencia. Una volta, finita una partita, siamo rimasti a parlare negli spogliatoi finché non se ne sono andati tutti. Succedeva che dopo le gare lui venisse a mangiare a casa mia, o viceversa”.
GettyE pensare che Aimar nel Valencia non doveva neanche giocarci. Nell’estate del 2000, Bassat, candidato alla presidenza del Barcellona, gli aveva proposto un contratto. Doveva essere il ‘regalo’ del nuovo numero uno. Solo che non vinse le elezioni e saltò tutto. E così Aimar rimase un altro anno a Buenos Aires. Nel club che lo ha lanciato, cresciuto, reso un vincente. L’esordio con il River era stato improvviso: giocò con le scarpe di Ortega, visto che non aveva ancora le sue. Viveva nella residenza dei ragazzi dei Millonarios, sognava Francescoli, Almeyda, Crespo. E pensare che papà non voleva nemmeno ci andasse. Decisivo fu l’intervento di Passarella, che lo allenò e lo portò al top. Così a ventun anni, decise di firmare con il Valencia neo finalista di Champions League pochi mesi prima, perdendo col Real. A gennaio, altrettanto all’improvviso.
Sulle orme di una leggenda come Mario Kempes, sognava di trascinare Los Che ai successi. Ce la fece: vinse due campionati da protagonista assoluto, anche se incassò la delusione di una finale di Champions League persa contro il Bayern Monaco ai rigori. Dal 2001 al 2004 visse un periodo di enorme gloria grazie a Rafa Benitez, che lo schierava nella sua posizione ideale, abbandonando anche il proprio 4-4-2 in favore del 4-2-3-1. Aimar al centro, tutti gli altri giravano intorno a lui. Il punto più alto è stato la vittoria della CoppaUEFA, in finale contro il Marsiglia. Partì dalla panchina, entrato al 64’ e a fine gara ha alzato la coppa. Di fronte, tra gli altri, a Barthez e Drogba. Maradona lo aveva già incensato.
"Pablo Aimar è il mio legittimo successore come miglior giocatore al mondo. Si diverte giocando, come facevo io. Fa sì che la vita degli avversari non sia un letto di petali di rose. Pagherei qualunque cifra per vederlo giocare”.

Nel 2005 poteva seguire Benitez al Liverpool, alla fine rimase in Spagna. Un anno dopo, fece la scelta di andare nel RealSaragozza, club ambizioso con una forte matrice argentina data anche dall’arrivo dei fratelli Milito e da D’Alessandro. L’esperienza si rivelò un disastro: nella seconda stagione la squadra crollò e precipitò fino alla retrocessione, timbrando il fallimento del progetto. Aimar allora scelse il Benfica, convinto da Rui Costa - con cui aveva condiviso il primo posto dei migliori assist-men della Champions League cinque anni prima - e dalla presenza di Quique Sanchez Flores, con cui aveva lavorato al Valencia. A Lisbona ritrovò sé stesso, tornò ad essere un punto di riferimento. Prese la 10 e diventò un 10, ovvero un immortale. Come Eusebio e Rui Costa. Grazie alle sue giocate, la sua leadership, il suo essere punto di riferimento. Cinque anni senza troppe vittorie - sono gli anni del Porto - ma lasciando un’eredità forte.
La fine della carriera è stata un lento declino. Scelse la Malesia, durò 8 partite, subì diversi infortuni, e poi tornò in Argentina. Voleva vestire nuovamente la maglia del RiverPlate, ma la sua ultima stagione fu solo con una presenza: 15 minuti. Poi la decisione di ritirarsi, arrivata mentre il River volava verso la finale di Libertadores del 2015. Salvo poi decidere di tornare in campo un’ultima volta tre anni dopo, con l’EstudiantesdiRioCuarto, squadra del quartiere di Cordoba dove è nato, nella quale aveva mosso i suoi primi passi da calciatore. Terminando una carriera in cui ha divertito, ha intrattenuto. E, nonostante tutto, è rimasto un’icona. Non solo per Messi e Maradona. Oggi allena, fa crescere i giovani e spalleggia Scaloni nell'Argentina. Un esempio, fino in fondo.
