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Vanderhaeghe HDGetty

Il necrologio e il Brasile ai Mondiali del 2002: le "due vite" di Vanderhaeghe

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La Nazionale brasiliana del 2002 era molto più di una squadra selezionata per riportare la Coppa del Mondo in Brasile, e soprattutto far dimenticare la finale di Parigi del 1998: era una fonte inesauribile di speranza, partita come un moto ascendente dal basso. Dalle viscere. Dalla scelta di Luiz Felipe Scolari di convocare Ronaldo e non Romario: dai pensieri e dalle paure di un Paese che appena quattro anni prima aveva portato a giudizio (simbolicamente e concretamente) il proprio “Fenomeno”, per tutto quel che caratterizzò il triste epilogo dei Mondiali in Francia.

In ogni caso, quello del Brasile, com’è noto, sarà un cammino verso la gloria eterna che passa dal concetto di redenzione: di squadra, di Nazione, di Ronaldo. Troppo forti per chiunque, ma nei presupposti di rivincita: eppure, quando a Kobe la Seleçao varca il tunnel degli spogliatoi per entrare sul prato dello “Stadio del Parco Misaki” comprende che non è l’unica “entità” ad aver fatto i conti con il concetto di “rinascita”.

Il Belgio non ha le individualità che ha il Brasile: questo è chiaro. Ha degli ottimi giocatori, schiacciati da una generazione che ha riscritto la storia del calcio: Robert Waseige gioca con un 4-2-3-1 che punta tutto sull’estro e la tecnica di Wilmots, tra centrocampo e attacco. In difesa c’è Van Buyten: in mediana, invece, Yves Vanderhaeghe.

Il rosso quasi fluo delle divise belghe non stona davanti al giallo, iconico, del Brasile: insomma, in un contesto che verrà ricordato come quello dei tanti, tantissimi flash provenienti dagli spalti, si gioca una delle gare più strane dell’intero mondiale. La prima occasione è del Belgio, che dopo trenta secondi va vicina al vantaggio con una conclusione di Mpenza a metà tra il tiro e il cross, che per poco non sorprende Marcos. Il resto è qualcosa a metà tra l’accademia (con tutto il repertorio verdeoro di doppi passi, giochi di gambe e conclusioni al volo) e lotta serrata a centrocampo. Qui serve una diga: Vanderhaeghe la costruisce.

Quando esce dal tunnel sa che rispetto ai suoi avversari ha vinto tanti, troppi titoli in meno: sa che la sua Nazionale in quella Coppa del Mondo ha il ruolo di “antagonista” dei futuri campioni. Lo sa già: sa anche che, fatta eccezione per Ronaldo, praticamente tutti i giocatori del Brasile di partite ne hanno vinte tante, ma mai quanto lui. Quasi nessuno della formazione allenata da Scolari ha partecipato al match che ha visto protagonista Vanderhaeghe parecchi anni prima, in altre vesti. In altri palcoscenici.

Facciamo un passo indietro. Yves nasce centrocampista: lo è sin da quando inizia a vestire la maglia della sua città, Roeselare. Un club che in Belgio ha puntato tutto sulla concretezza dei propri progetti, raggiungendo la Jupiler Pro League alla fine del millennio. Nel 1986 il Cercle Bruges intravede delle qualità nel giovane Yves e decide di acquistarlo: è una società di massima serie. Il palcoscenico perfetto in cui crescere: Vanderhaeghe ha ancora 16 anni: “e tutta la vita davanti”, come si dice.

Il primo anno vola via senza mai esordire: nel novembre del 1987 viene mandato in campo contro lo Standard Liegi, ma qualcuno inizia a domandarsi perché fatichi a inserirsi stabilmente in una squadra di tutt’altro livello rispetto al Roeselare. Nel frattempo studia, si diploma in educazione fisica e ritorna a casa. Ma il suo trasferimento non è “il fatto” che segnerà l’estate dei suoi 18 anni (compiuti a gennaio).

Vanderhaeghe Brazil Belgium 2002Getty

Quella del Cercle Bruges non è e non sarà mai un’opportunità mancata, per Yves. Non può esserlo: ai critici, che hanno analizzato le difficoltà di inserimento del centrocampista al Cercle Brugge, rispondono i fatti. O meglio: una cefalea, in un primo momento. Una cefalea che, però, si rivelerà essere meningite. Vanderhaeghe perde la percezione degli spazi e alcune funzionalità motorie, poi la capacità di leggere e scrivere: cambia tutto, gradualmente. La sua vita diventa un incubo.

“Sentivo tutto: la mia famiglia mi parlava, ma non ero in grado di rispondere”.

Yves viene ricoverato in ospedale, poi entra in coma: con la morte a un passo. Anzi, dichiarata: clinicamente deceduto, questo è il quadro complessivo. Il giorno dopo l’esito degli esami viene pure pubblicato il suo necrologio, ma è un errore: Vanderhaeghe non è mai morto.

“Ho ancora quell’articolo da qualche parte, a casa: durante quei mesi in ospedale provavo a dare qualche colpo a quei fili attaccati al mio corpo. Più di una volta ho pensato di farla finita, ma nei momenti migliori c’era sempre un pensiero ricorrente nella mia testa: ‘Giocherò di nuovo a calcio?’”.

Forse è anche per questo motivo che quando torna su un campo, dopo quasi sei mesi di ricovero e diversi in più di ripresa, tutto appare diverso. Persino il percorso verso la redenzione calcistica. A salvarlo è stato il cortisone: a Capodanno è di nuovo in campo, pur privo di qualsiasi condizione atletica, ma felice.

Riassaporerà la massima serie con il Mouscron pochi anni dopo, sarà uno dei pilastri dell’Anderlecht tra l’inizio del nuovo millennio e il 2007, prima di rientrare al Roeselare, in Division I. L’attuale Jupiler Pro League. Il cerchio che si chiude, prima di iniziare la carriera da allenatore.

Oltrepassato il tunnel degli spogliatoi dello stadio di Kobe, guardando Ronaldo, Ronaldinho e gli altri, Vanderhaeghe alza la testa e lo sguardo: Waseige gli assegna il compito di “francobollarsi” a Dinho, cosa che fa egregiamente, pur guadagnando in partita un cartellino giallo. Il Belgio perde 2-0. Non importa il risultato: lui, i Mondiali, li aveva già vinti parecchi anni prima.

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