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Lucho Gonzalez PortoGetty Images

Natural born winner: Lucho Gonzalez, il secondo argentino più vincente di sempre

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Il 20 novembre del 2021, il Centenário di Montevideo si colora di rosso e di nero. L'Athletico Paranaense, che fino a pochi anni prima si chiamava Atlético e poi ha aggiunto un'acca all'interno del nome, supera per 1-0 il Bragantino in un derby brasiliano e si aggiudica la seconda Copa Sudamericana della propria storia. Luis Óscar González, per tutti Lucho, quella sera non c'è. Com'è del resto normale, non essendo più nell'Athletico e nemmeno nel calcio giocato. Ma anche lui può a buon diritto fregiarsi del titolo di campione, avendo fatto parte della rosa arrivata a giocarsi la finale in Uruguay.

Lucho González si è ritirato qualche mese prima, a maggio. Proprio in una partita di Sudamericana. E proprio con la camisa dell'Athletico, dove ha vissuto una sorta di seconda giovinezza. Paulo Autuori, l'allora allenatore rossonero, uno che in tempi non sospetti lo ha definito “un animale competitivo”, lo ha schierato dall'inizio contro gli ecuadoriani dell'Aucas e dopo una manciata di minuti gli ha concesso un'indimenticabile passerella, sostituendolo col giovane Christian. Uno 40 anni, l'altro nemmeno 21. Una specie di passaggio di consegne a stagione in corso.

Per le regole della CONMEBOL, anche Lucho González può e deve essere considerato campione di quell'edizione. Grazie a quel successo, l'ex centrocampista di River Plate, Porto e Marsiglia diventa così in maniera ufficiale il secondo argentino più vincente di sempre con 29 trofei, dietro al solo Leo Messi (41) e in compagnia di Carlos Tévez. Anche se in realtà si tratta di classifiche sempre piuttosto volubili, se è vero che competizioni o sfide secche minori come il Torneo Preolimpico vinto nel 2004 con l'Argentina o la Suruga Bank, insolita sfida tra i campioni della Copa Sudamericana e della J-League, vengono conteggiati o ignorati a fasi alterne.

Lucho Gonzalez Athletico ParanaenseGetty Images

In ogni caso, poco importa. La sostanza è che, negli ultimi 20 anni, Lucho González ha lasciato una discreta impronta nel pallone sudamericano. E, beh, non soltanto in quello. Ha vinto anche in Europa, sia con il Porto che con il Marsiglia. Ha vinto dappertutto, semplicemente. Pure nel calcio del Qatar. E ovunque sia andato si è fatto apprezzare per il proprio stile all'apparenza contraddittorio: se in campo è stato un centrocampista di lotta e di governo, un leader dalla botta sempre pronta, fuori non ha mai amato concedersi troppo ai riflettori.

Nato da padre uruguaiano e madre cilena, Lucho è un cittadino del mondo. In Argentina è uno dei grandi idoli della storia del River Plate. In Brasile dell'Athletico Paranaense. E poi c'è il Porto, il club dove si è fatto conoscere anche in Europa. Ha indossato la maglia bianca e blu in due occasioni distinte, con in mezzo una parentesi – vincente, naturalmente – al Marsiglia. A Oporto, dove ha giocato 241 partite andando a segno 61 volte, si emozionano ogni volta che lo nomini. Sono 10 i trofei infilati in bacheca, tra cui i 4 campionati di fila dal 2006 al 2009. Nel 2006, con uno spettacolare destro al volo sotto l'incrocio, ha segnato in un Amburgo-Porto uno dei goal più belli e spettacolari della propria carriera. È lì che un quotidiano portoghese, il giorno dopo una grande prestazione, gli ha appiccicato il soprannome di una vita: “Comandante”. La sua tipica esultanza, non a caso, era il saluto militare. Il presidente Pinto da Costa ha dato il suo nome a uno dei propri cani: Lucho. Un altro, per la cronaca, si chiamava Dragão.

“Quando sono iniziate le trattative col Porto, prima dei Mondiali del 2006 – ha rivelato qualche giorno fa – gran parte della stampa argentina dubitava che avrei continuato a far parte della nazionale argentina. Il campionato portoghese, del resto, non era tra i più importanti d'Europa. Ma mi sono identificato con i valori del club e della città. Mi sembrava di vivere in Argentina. L'affetto nei confronti dei giocatori non era nemmeno normale”.

Lucho arriva al Porto dal River Plate, dove a sua volta ha già vinto un paio di campionati. Non la Copa Libertadores: quella se l'è riservata per il suo ritorno a Buenos Aires, nel 2015, con l'ex compagno Marcelo Gallardo in panchina. Il rapporto col Millo è strettissimo. Eppure qualcuno dice addirittura che sia un tifoso del Boca Juniors. Falso: la sua squadra del cuore è il Racing, club dove non ha mai giocato ma che non fa mistero di voler allenare un giorno, “anche se oggi c'è Fernando Gago, e sarebbe una mancanza di rispetto nei suoi confronti dire che voglio prendere il suo posto”. Ha pure il simbolo del club tatuato su un polpaccio, mentre sull'altro compare quello dell'Huracán, ovvero la squadra dov'è nato e ha esordito nel grande calcio.

Il legame col Boca, in ogni caso, c'è. Ed è rappresentato, strano a dirsi, da Juan Román Riquelme. I due hanno giocato insieme nell'Argentina e sono molto amici, nonostante abbiano difeso colori diametralmente opposti. Qualche tifoso del River è quasi caduto dalla sedia quando ha scoperto che Lucho ha chiamato “Román” uno dei figli. Di contro, ha confessato Riquelme di possedere soltanto due maglie del River nella propria collezione: una è quella di Pablo Aimar, altro ex del Millo e suo amico fraterno, e l'altra è quella di González.

“La settimana prossima invitami, che vengo a prendere un mate nel vostro hotel – ha detto Román a Lucho nel 2019, durante un programma radiofonico argentino, pochi giorni prima di un River Plate-Athletico Paranaense di Recopa Sudamericana – Allo stadio non posso venire a vederti, in hotel sì”.
Lucho Gonzalez RiquelmeGetty Images

Se nei confronti dell'ex rivale Riquelme c'è sincera amicizia, quella verso Diego Armando Maradona è pura idolatria. Il tatuatissimo González ha anche la sua effigie sulla gamba sinistra. Ha raccontato qualche anno fa che, quando Diego era il commissario tecnico dell'Argentina e lo ha convocato, "mi sentivo così imbarazzato nel giocare con un tatuaggio dell'allenatore che l'ho coperto con i calzettoni”. Per la cronaca: Lucho si è tatuato anche il volto di un altro suo ex ct, ovvero Marcelo Bielsa.

“Quando allenava il Leeds United ha ordinato alla squadra di lasciar pareggiare gli avversari dopo aver segnato con un giocatore a terra. Secondo lui era stata una mancanza di fair play. Quei tre punti mancati gli sono costati la promozione, ma lui ha preferito rispettare le regole e i valori del calcio. Ha fatto qualcosa che è andato al di là del pallone”.

A proposito di Argentina: se González si è riempito la pancia di trofei a livello di club, il piccolo rimpianto è non aver trionfato con l'Albiceleste. Ha vinto le Olimpiadi ateniesi del 2004, sì. Ma a livello di squadra senior non gli è mai andata giù la sconfitta ai rigori contro il Brasile nella Copa América dello stesso anno. Il ct era proprio Bielsa, per la cronaca. Ha detto Lucho qualche tempo fa che “ancor oggi non riusciamo a capire come quel pallone sia arrivato ad Adriano”. L'evidente riferimento va al 2-2 in extremis dell'Imperatore, fondamentale per portare la finale ai calci di rigore, con successiva vittoria brasiliana.

Però, come detto, Lucho González si è ampiamente rifatto in due decenni e oltre. Dalla Primera B Nacional del 2000 con l'Huracán alla Sudamericana 2021 con l'Athletico Paranaense, il calcio argentino ha trovato un natural born winner. Spesso lasciando il segno in prima persona, come quando è andato a segno in Marsiglia-Rennes 3-1 del 2010, la partita decisiva per regalare matematicamente il titolo francese all'OM di Didier Deschamps. Niente esultanza del Comandante, quella volta, ma un urlo tipicamente argentino con le mani strette a pugno.

E oggi? Oggi Lucho sta provando a reinventarsi in panchina. In attesa che il Racing lo noti e decida – chissà – di dargli una chance, ha iniziato dove ha concluso: in quel Brasile divenuto ormai una seconda casa. Il primo club a dargli una chance è stato il Ceará, ma l'esperienza è durata lo spazio di un battito di ciglia: è arrivato a Fortaleza a fine agosto ed è stato esonerato due mesi più tardi, con la squadra sull'orlo della retrocessione. Adesso, si ritrova a fare il secondo all'Internacional. Perchè laggiù, quando si tratta di cambiare allenatore, non guardano in faccia neppure i vincenti.

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