Nell’epoca del calcio “alla portata di tutti”, uno come Julian Alvarez non poteva proprio sfuggire all’occhio attento di chi lo aveva suggerito al Real Madrid, nella stagione che più tra tutte segnerà il dominio spagnolo di Lionel Messi: quella della doppietta della “Pulga” in semifinale di Champions League al Santiago Bernabeu, con la serpentina che lo ha reso celebre ai più, ricalcando fedelmente qualsiasi movimento in accelerazione potesse ricordare anche solo minimamente Diego Armando Maradona. Era l’apice di Leo: avremmo visto altre robe del genere, comunque, negli anni successivi.
In quel periodo “Araña” aveva appena superato la prima decade della sua vita, segnata nel profondo dal peso della predestinazione che gli era stato attribuito quando, dalle parti della Ciudad, a Valdebebas, qualcuno gli aveva consegnato la maglia bianca per antonomasia, illudendolo potesse vestirsi dello stesso colore per gran parte della sua vita: non sarà così. A 11 anni il Real Madrid non può ingaggiarti: devi aspettare i 13, sradicando la tua famiglia e i tuoi affetti nell’attesa, e trasferirti in Spagna. Senza garanzie di successo.
Neanche quelle fondate sul talento: tutti ne hanno anche solo uno spunto, se opzionati dai Blancos “e compari”. Non pescano certo a caso: e difficilmente vengono abbagliati dalla sovrastruttura luminescente di un ragazzino con poco valore. A quei livelli lì sono talmente sgamati da poter fiutare i superpoteri, pur in potenza e non in atto: o, forse, qualcuno deve avergli raccontato la storia del ragno, delle “numerose gambe” di Julian Alvarez, notate per la prima volta dal fratello in uno dei pomeriggi che ne hanno segnato la crescita personale, con la palla al piede. “Sensi di ragno” che si mescolano facilmente all’”amor de su vida”, fatto di cuoio, “garra y corazon”: “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, è già stato detto?
Al termine della sfida contro la Polonia che lo ha consegnato alla storia del calcio grazie a una delle due reti che hanno qualificato l’Argentina agli ottavi di finale di Qatar 2022, i social hanno offerto l’ennesima prova ambivalente di utilità mista a preoccupante profondità del proprio archivio, tirando fuori alcune delle testimonianze del “giovane Alvarez” che, però, segnano irrimediabilmente la sua immagine, rivalutandola anche oltre le esultanze. Il video del bimbo dell’Atletico Calchin che racconta i suoi sogni è emblematico.
“Qual è il tuo sogno?” – “Giocare in un Mondiale” - “E qual è il tuo idolo?” – “Messi”.
Ha perfettamente senso, e riporta alla mente uno dei più iconici spot ideati, prodotti e registrati da Nike con il Barcellona, parecchi anni fa (basti pensare al bambino Jonathan dos Santos, oggi trentaduenne, affacciato al balcone di un palazzo della città): “Recuerda mi nombre”, seguito dal mezzo sorriso adesso nascosto dalla barba. “Leo Messi”. Una promessa, insomma, e un giuramento.
Il culto di “Araña”, comunque, in Europa è arrivato tardi rispetto alle premesse e quando è riuscito a farsi strada nelle usanze comuni lo ha fatto “normalizzandosi” tra i tanti talenti usciti dall’Argentina, lasciando un segno in Sudamerica: in ogni caso, nella finale che ha consegnato la Copa Libertadores al River Plate, in quel Bernabeu che ha visitato più volte da bambino, c’era anche lui, spedito in campo da Marcelo Gallardo prima delle reti di Quintero e Martinez che affiderà alla storia una delle più celebri vittorie dei Millonarios in un Superclasico. Anche questo, comunque, è frutto di uno scherzo del destino.
Da bambino Julian Alvarez viene provato anche dal Boca Juniors, senza successo: al River troverà la sua strada. In verità, comunque, quando il Manchester City si è mosso per strapparlo alla concorrenza, senza troppa difficoltà pur con poco più di 20 milioni (che alla luce delle prestazioni in Argentina, poi riproposte con maggiore impatto in Qatar, sono noccioline), tutti conoscevano il potenziale di “Araña”. Proprio tutti.
Solo che per un motivo o per un altro è toccato all’allenatore che più ha segnato la carriera di Leo acquistarlo e allenarlo: la perfetta guida a un giocatore che “non è un 9, non è un esterno, non è un trequartista, ma è un po’ tutte queste cose”, come ha spiegato un giornalista argentino, Federico Bulos.
“Chi sa giocare, sa giocare: chi è intelligente, è intelligente in Argentina e qui. Il calcio è universale”.
Ha chiosato Pep Guardiola dopo averlo anche solo provato in allenamento, dopo il suo arrivo ai Citizens, reso tardivo dall’accordo che gli ha permesso di giocare in prestito al River per altri mesi. Giusto il tempo di salutare.
Alla fine del suo ventiduesimo anno (solare) di vita ha già vinto quei trofei che in molti tra i suoi predecessori, destinati a ereditare il peso della storia dell’Argentina, non sono riusciti a conquistare: oltre alla Libertadores e al campionato con il River, ovviamente, la Copa America del 2021, che Lionel Scaloni gli ha regalato convocandolo con convinzione, spinto dal popolo che avrebbe voluto semplicemente cantare “Vamos, vamos Argentina” e che probabilmente in Qatar si sarebbe aspettato di celebrare “El Toro” Lautaro Martinez e non “Araña”, Julian Alvarez.
“Recuerda mi nombre”, però: da quando è stato mandato in campo contro l’Arabia Saudita il ragazzino che sognava di giocare ai Mondiali e che postava su Instagram una foto con Lionel Messi, nel giorno del suo ventottesimo compleanno (quasi una vita fa), definendolo “el mejor de la historia”, il migliore di sempre, non è mai stato messo fuori. Da quel goal contro la Polonia, poi, è sempre stato schierato da titolare.
La doppietta contro la Croazia, che ha di fatto spalancato le porte della finale in Qatar (va citato anche il rigore procurato e poi trasformato da Messi), sembra il tiepido inizio di una liturgia che potrebbe consegnare Julian Alvarez alla storia come uno dei più vincenti giocatori dell’Argentina, e con l’Argentina, pur a 22 anni. Qualcosa in più. Nei Mondiali che, in qualsiasi caso, hanno celebrato il talento indefinibile di Leo celebrandone la rinascita, rassicurando tutti. C’era un “avanti Messi” e ci sarà anche un “dopo Messi”, nel calcio argentino e mondiale. Incastrato, o incastonato come gemma, nella ragnatela di “Araña”.
