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Iniesta Spanish Squad 10072010Getty Images

Il Mondiale di Iniesta: dalla depressione a uomo decisivo

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I goal non sono tutti uguali. Ce ne sono alcuni che non cambiano le sorti di una partita, altri che invece valgono una vittoria che può voler dire punti pesanti o il passaggio di un turno, altri ancora che restano impressi nella memoria della gente perché straordinariamente belli e poi ci sono quelli più importanti in assoluto: quelli che fanno la storia.

Riuscire a realizzare uno di quei goal che modifica il corso delle cose è uno di quegli onori riservati a pochi, ma se di goal storici ne riesci a realizzare addirittura due e tra l’altro in un arco temporale estremamente breve che va precisamente da maggio 2009 a luglio 2010, allora vuol dire che non sei solo un campione, sei un giocatore che merita a pieno titolo l’ingresso nel gruppo dei grandissimi del calcio.

Andrés Iniesta un posto tra i grandissimi se l’è meritato non solo perché per due volte, quando mancava un soffio al triplice fischio finale, si è trovato a posto giusto e al momento giusto, ma anche perché è stato semplicemente uno dei centrocampisti più forti di sempre. Un fuoriclasse assoluto, un talento geniale dotato di un’intelligenza tattica e di qualità tecniche assolutamente fuori dal comune. Uno dei suoi soprannomi, 'l'Illusionista', dice molto del suo modo di giocare, ma non tutto. Iniesta infatti è sempre stato uno di quei campioni in grado di fare la differenza perché in possesso di un qualcosa in più rispetto agli altri, ma sempre mettendo al primo posto la squadra. Nel corso della sua straordinaria carriera ha fatto la fortuna di Barcellona e Spagna, nel senso più pieno del termine.

Probabilmente infatti il Barça di Guardiola non sarebbe entrato nel novero delle migliori squadre di ogni tempo se proprio Don Andrés, in pieno recupero, non avesse segnato allo Stamford Bridge contro il Chelsea il goal di quell’1-1 che spinse i blaugrana nella finale di Champions poi vinta nel 2009 contro il Manchester United, e probabilmente la Spagna non avrebbe vinto il suo primo e sin qui unico Mondiale se Iniesta non avesse deciso, con un goal al 116’, la finale di Johannesburg del 2010.

Andres Iniesta Barcelona Chelsea Champions League 06052009Getty

Cose da predestinato, ma dietro i trionfi e le imprese che fanno sognare gli appassionati, spesso c’è tanto altro. Iniesta lo sa bene, visto che nel momento più alto della sua carriera ha dovuto fare i conti con l’avversario più difficile da superare: la depressione.

Dribblare un difensore, quando sei dotato di qualità speciali, può essere cosa normale per un fuoriclasse, le cose però si fanno molto più complicate quando il tuo nemico non riesci a vederlo. Iniesta nel 2009 ha 25 anni, ha appena vinto la sua seconda Champions League e completato il suo primo Triplete, ha tutto ciò che un ragazzo può sognare, ma si trova comunque a fare i conti con difficoltà dall’esterno inimmaginabili.

Quell’anno ha diversi infortuni e stinge i denti per giocare la finale di Champions. Quella partita di Roma vale uno straordinario trionfo, ma anche ulteriori infortuni che poi l’avrebbero condizionato nei mesi a seguire. In uno scenario probabilmente non perfetto, ma tuttavia usuale per un giocatore, accade poi la tragedia che lo segna profondamente: la morte di Dani Jarque.

E' l’8 agosto quando il 26enne difensore dell’Espanyol, mentre è in ritiro con la sua squadra a Coverciano, muore probabilmente per un’asistolia occorsagli mentre è al telefono con sua moglie. Dani Jarque non era solo un ragazzo nel pieno della sua gioventù che svolgeva uno dei lavori più belli del mondo, era anche un amico fraterno di Iniesta.

“Non ero al meglio e poi morì Dani. Quando l’ho saputo è stato come essere colpito da un pugno fortissimo che mi ha mandato al tappeto, mi sono sentito sprofondare. Ci sono state molte cose che mi hanno fatto cadere in un vicolo cieco. So che è una cosa difficile da capire quando si ha tutto, ma sono stato malissimo”.

Iniesta ha avuto la forza di raccontare cosa ha provato in quello che sarebbe dovuto essere il momento più felice della sua vita, ma che è stato in realtà il più duro.

“Le cose migliori mi sono accadute nella fase per me più difficile. Non mi vergognavo nel farmi vedere così dai compagni. Se non avessi avuto attorno a me ciò che ho avuto, sarebbe stato praticamente impossibile uscirne. Vedevo tutto nero e più passavano i giorni e più mi sentivo peggio. In situazioni del genere non provi niente, non vedevo l’ora che arrivasse la notte per prendere una pillola e riposarmi. Diventa complicato tenere il controllo della tua vita”.

Ad aiutare il fuoriclasse spagnolo a vincere la sua personale battaglia con la depressione furono una psicologa, due psichiatri, ma anche i suoi amici, Pep Guardiola (“Mi diceva sempre che l’Andrés uomo era più importante dell’Andrés giocatore”) e ovviamente i suoi cari, compreso su padre José Antonio.

“Quando tuo figlio di 25 anni viene a trovarti a mezzanotte e ti dice che vuole dormire con i suoi genitori, capisci che c’è qualcosa che non va. Mi disse che non stava bene e che non sapeva perchè. Sono arrivato anche a chiedermi se non fosse stato meglio per lui lasciare il calcio”.

Andres Iniesta Spain Netherlands World Cup final

Iniesta in realtà non ha mai smesso e ancora delizia gli appassionati con le sue giocate, sebbene in Giappone, a moltissimi chilometri di distanza dalla sua Fuentealbilla, dalla sua Spagna e dal suo Barcellona. Si è rialzato, ha vinto la sua partita più difficile, ha fatto in tempo a consacrarsi come uno dei migliori di sempre e poi, quasi a chiudere un cerchio, a dedicare al suo amico fraterno il goal più importante della storia del calcio spagnolo: quello segnato contro l'Olanda il 10 luglio 2010.

Quella sera Jessica Alvarez, la moglie di Dani Jarque, tornò a guardare una partita dopo undici mesi, era la prima dalla morte del marito.

“Decisi di guardare la finale, ero a casa con mia madre e mia figlia di dieci mesi. Dani sarebbe stato felice di vederla con i suoi amici. Quando Andrés calciò chiusi gli occhi. Non so perché, ma sapevo che avrebbe segnato, forse è stata intuizione, forse un presagio, forse il destino. Andrés poteva dedicare quel goal alla sua famiglia, a sua moglie, ai suoi figli, a tantissime persone. Lo ha dedicato a Dani”.

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