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Marco Giampaolo Milan Serie AGetty

Da "maestro" a "testa alta e giocare a calcio": Giampaolo ritrova il Milan

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“Me la devo giocare”: è sicuro, Marco Giampaolo, davanti ai microfoni in conferenza stampa. “Non mi piace che la squadra parta con il pronostico a sfavore, ma già battuta. Non la perdo prima di iniziare: semmai la perdo al 95’, ma non prima di iniziare”: e sul fatto che sia stato estremamente sincero, nella sua determinazione, ci si può fidare, per più motivi.

Primo perché a dispetto di quanto si racconta in giro, lui non è mai stato un tipo molle: colpa dei social, semmai, abili a marciare sui momenti di flessione di questo o l’altro professionista del calcio. Secondo, e questo in un certo senso si lega proprio a quanto scritto, perché la squadra che andrà ad affrontare con la sua Sampdoria è il Milan: quel Milan, in quello che è stato anche il suo stadio.

È l’estate del 2019 e Giampaolo (penserete, adesso, a quali intrecci possa offrire il calcio) è reduce dall’ennesima ottima stagione alla guida della Sampdoria: il fatto è che su di lui, da tempo, ci sono aspettative piuttosto alte, pronte ad esplodere alla prima dichiarazione pesante che arriva, puntualmente, proprio nei giorni in cui il club rossonero si preparava ad annunciarlo come nuovo tecnico.

“Giampaolo è un maestro: fa parte di quegli allenatori che fanno sia da sceneggiatori che da registi”, spiega a “La Gazzetta dello Sport” un allenatore che dalle parti di Milanello ha fatto la storia. Arrigo Sacchi.

Ecco, la “benedizione di Sacchi”, definiamola così, è stata insieme il punto più alto e l’inizio della condanna sportiva di Giampaolo: perché è così, che funziona. Se ci sono delle aspettative così alte sul tuo conto da scomodare i mostri sacri hai due possibilità: o le mantieni, ripagando le attese, o ti giochi la faccia.

Il problema, essenzialmente, è che non è un fatto volontario, soprattutto nel calcio: se per vincere bastasse semplicemente crederci fino in fondo sarebbero tutti campioni. E invece no: serve altro, persino un po’ di fortuna. Tempo? Sì, può essere: ma in un Milan in difficoltà da anni e praticamente all’inizio di un nuovo progetto societario chiedere tempo è cosa ardua. Si fa quel che si può.

Giampaolo viene annunciato il 19 giugno 2019, quattro giorni dopo la risoluzione con la Sampdoria: alla sua conferenza di presentazione parla della voglia di giocare a calcio come priorità assoluta, mista a tormentoni classici come il subir poco e il “percorso da seguire”, per tutti.

Non mancano, ovviamente, i riferimenti al Derby di Milano: uno dei temi chiaramente più affrontati da quelle parti, anche se sei arrivato da pochi giorni.

“Conte dice ‘testa bassa e pedalare’? Il mio slogan è ’testa alta e giocare a calcio’”:si prende le prime pagine dei quotidiani. Le aspettative? Aumentano.

La stagione pronta a iniziare è, però, una delle più strane dell’intera stagione rossonera: il Milan, pur essendosi qualificata per l’Europa League, non potrà partecipare alla competizione per aver violato le norme del fair play finanziario UEFA. Dal mercato, però, arrivano giocatori importanti come Theo Hernandez e Rafael Leao. Sì, due dei pilastri dell’attuale formazione di Stefano Pioli.

“Io un maestro? Ho tanti difetti…”.

Le difficoltà si vedono, però: tralasciando il precampionato, l’esordio in Serie A è un 1-0 contro l’Udinese, in casa dei bianconeri, firmato Rodrigo Becao. La primissima formazione di Giampaolo al Milan è, invece, un 4-3-1-2 con Donnarumma in porta, Calabria, Musacchio, Romagnoli e Theo Hernandez in difesa; Borini e Lucas Paquetà schierati mezz’ali a supporto del ragista, Calhanoglu. Qui qualcuno ha fatto una smorfia. Suso trequartista, poi, alle spalle di Castillejo e Piatek.

Ma visto che ci hanno insegnato a non giudicare un libro dalla copertina, la seconda e la terza giornata consegnano due incoraggianti vittorie per 1-0 contro Brescia, a San Siro, e Verona, al Bentegodi, firmate da Calhanoglu e Piatek. La prima grande prova è il Derby contro l’Inter, alla quarta. È qui, con ogni probabilità, che l’avventura di Giampaolo al Milan finisce.

Perché sì, in realtà finirà tre giornate più tardi, dopo due sconfitte contro Torino e Fiorentina, che fanno di lui il primo allenatore della storia del Milan a perdere quattro delle prime sei gare di Serie A da 81 anni a quel momento, e soprattutto dopo la paradossale vittoria contro il Genoa per 1-2 conquistata grazie al rigore di Kessié che, però, non lo salverà dall’esonero. Insomma, non finirà proprio la sera del Derby, questo no: ma almeno filosoficamente sì.

Lo 0-2 subito contro l’Inter e targato Brozovic-Lukaku è la sconfitta delle premesse sul suo conto: del ‘testa alta e giocare a calcio’ contro il ‘palla lunga e pedalare’ di Antonio Conte, vittorioso quella sera. Di un gioco che proprio non era riuscito a decollare: tornerà a San Siro e ci ripenserà, magari. Contro Stefano Pioli che gli è succeduto, raccogliendo l'eredità e portando il Milan in alto. E allora sì, darà tutto: “Me la devo giocare”. Se la giocherà.

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