Quella che si è presentata ai blocchi di partenza della stagione 1996-1997 è stata una Roma che aveva due grandi obiettivi: fare il definitivo salto di qualità e potersela giocare alla pari con tutte le migliori del campionato.
Al fine di cambiare marcia, il club del presidente Sensi decise di chiudere un ciclo, quello targato Carlo Mazzone, e di affidare la guida tecnica della squadra a colui che all’epoca era semplicemente ritenuto uno dei migliori allenatori del pianeta: Carlos Bianchi.
Quella di Mazzone, romano e romanista, è una figura estremamente amata dal popolo giallorosso. Nel corso delle tre annate vissute sulla panchina della sua squadra del cuore, è riuscito ad ottenere un settimo e due quinti posti ed ha lanciato in maniera definitiva un ragazzo che poi sarebbe diventato la leggenda per eccellenza della Roma: Francesco Totti.
Il suo lavoro è stato quindi positivo, ma per compiere l’ultimo step, quello che avrebbe dovuto realmente significare un cambio di marcia, serve probabilmente un qualcosa di diverso. Il prezzo da pagare è il sacrificare gli affetti sull’altare dei risultati, cosa questa che induce il club anche a salutare la bandiera Giannini, ma d’altro canto il calcio spesso impone anche scelte di questo tipo.
In realtà, per la successione del ‘Sor Carletto’ inizialmente si fa il nome di Fabio Capello, cosa questa che dimostra quanto si volessero fare le cose in grande, ma con il tecnico reduce dai trionfi con il Milan già sulla via di Madrid, si decide di virare su quello che allora era visto come il suo alter ego sudamericano.
Il Carlos Bianchi che sbarca a Roma è un allenatore che in Argentina si è già guadagnato lo status di leggenda. E’ riuscito a costruire una macchina perfetta, il Velez Sarsfield, con la quale nel giro di tre anni ha conquistato tre titoli argentini, una Copa Interamericana, una Libertadores ed un’Intercontinentale battendo tra l’altro proprio il Milan di Capello.
Il curriculum è quindi straordinario, ma per avvicinare le primissime della classe, servono anche giocatori all’altezza della situazione. La rosa giallorossa è già di buona qualità e comprende elementi come Aldair, Thern, Moriero, Di Biagio e Delvecchio, oltre al già citato Totti ed una coppia goal che fa sognare, quella composta da Balbo e Fonseca, e per rafforzarla ulteriormente si decide di intervenire in maniera mirata.
Arriva quindi Damiano Tommasi, un giovane centrocampista che ha fatto intravedere cose importanti al Verona, Roberto Trotta, perno della difesa del Velez espressamente richiesto proprio da Bianchi e soprattutto un attaccante che negli anni precedenti si è costruito una solida fama di bomber implacabile: Martin Dahlin.
I suoi genitori, un musicista di origine venezuelana ed una psicologa svedese, si sono conosciuti a Copenhagen ma si sono poi trasferiti in un sobborgo di Goteborg dove loro figlio nascerà dodici giorni dopo uno degli eventi più importanti del XX secolo: l’assassinio di Martin Luther King.
Il piccolo Martin, nome che non gli è stato dato a caso, cresce in Svezia e nel 1978 si appassiona al calcio vedendo in Tv le imprese compiute ai Mondiali dall’attaccante argentino Mario Kempes.
“Quando ho visto quanto i giocatori si divertissero nel far goal, ho capito che era quello che volevo fare”.
Cresciuto nel Lunds BK, la squadra della sua città, vede realmente realizzare il suo sogno di diventare un calciatore quando nel 1987 si trasferisce al Malmo, la squadra più forte di Svezia. La prima stagione tra i grandi è da sogno, 17 goal in 21 partite di campionato, e da lì in poi per lui il discorso si farà in discesa.
Il suo nome inizia a circolare presto anche in Italia, tanto che la Fiorentina, allora allenata dal tecnico svedese Sven-Goran Eriksson, pensa di prenderlo per poi fargli fare le ossa altrove, ma il trasferimento non si concretizza e il giovane Martin resta in Svezia, dove si impone al punto di entrare nel giro della Nazionale, prima di compiere il grande salto: quello in Bundesliga.
Il Borussia Monchengladbach è lesto nell’anticipare la folta concorrenza e nell’assicurarselo per poco più di un miliardo di lire e Dahlin ripaga la fiducia avuta segnando caterve di reti.
Le immagini dei suoi goal e delle sue prodezze iniziano a fare il giro d’Europa, ma ai meno attenti ai discorsi tecnici è soprattutto una cosa a balzare all’occhio: Martin è svedese, ma è anche di colore.
“Per me è un motivo d’orgoglio sapere di essere stato uno dei primi giocatori svedesi di colore, ma non mi sono mai visto come un pioniere. Io sono solo un calciatore, sono un ragazzo che gioca a pallone. Per me non ci sono differenze, io non vedo colori”.
Il numero di goal segnati intanto cresce di settimana in settimana, ma per renderlo un giocatore di fama planetaria serve la vetrina adatta. La grande occasione gli si presenta nel 1994 quando vanno in scena i Campionati del Mondo negli USA e lui la coglie al volo. E’ la punta di diamante di una Svezia che si spinge fino alle semifinali dove verrà sconfitta di misura per 1-0 dal Brasile che poi si laureerà campione del mondo, ma lui intanto ha già fatto abbondantemente parlare di se segnando contro il Camerun, contro la Russia (doppietta) e negli ottavi contro l’Arabia Saudita. Quattro goal in cinque partite, uno in meno del compagno di reparto Kennet Andersson, che gli valgono un posto nella classifica dei cannonieri al fianco di Batistuta e Raducioiu.
“In quella Svezia c’erano giocatori con l’età giusta e quasi tutti erano già andati a giocare in altri Paesi. Avevamo Patrick Andersson, uno che poi avrebbe vestito le maglie di Bayern e Barcellona, avevamo Thern che già giocava in Serie A come Brolin e ovviamente c’eravamo io e Kennet Andersson in attacco”.
(C)Getty ImagesA 26 anni Dahlin ha dimostrato di essere più che pronto per un ulteriore passo in avanti della sua carriera e si riscopre tra l’altro tra gli attaccanti più ambiti dell’intero panorama calcistico mondiale. Per lui, come per molti altri colleghi, la svolta arriva nel 1995, ovvero nell’anno della ‘Sentenza Bosman’.
La punta svedese sa che il contratto che lo lega al Borussia Monchengladbach è in scadenza e sa anche di avere solo l’imbarazzo della scelta. Gli arrivano chiamate da ogni parte d’Europa e lui non ha dubbi nell’accettare un’offerta in particolare: quella della Juventus.
Ha la possibilità di approdare in una delle compagini più forti del Vecchio Continente e non vuole farsi scappare l’occasione della vita. Trova subito un accordo con il club bianconero e firma anche un precontratto. La notizia diventa di dominio pubblico, tanto che in Italia c’è già chi inizia a parlare di lui come dell’erede di Gianluca Vialli.
Nelle idee della Juve dovrebbe essere l’uomo di punta di un reparto offensivo completato da Boksic, Ravanelli e Del Piero, ma quando ogni tassello del puzzle sembra essere andato al suo posto e si attendono solo gli annunci ufficiali, sorge un problema: il Borussia, in maniera molto intelligente, si è assicurata una sorta di paracadute prevedendo il ‘terremoto Bosman’.
Nel contratto di Dahlin c’è fondamentalmente una clausola che prevede che, in caso di cambiamenti importanti in ambito di calciomercato, lo stesso è da considerarsi automaticamente prolungato per un anno. Il giocatore quindi formalmente non è libero e bisogna accontentare le richieste del Gladbach per prenderlo.
“C’era una clausola che prevedeva un rinnovo automatico di un anno e io nemmeno lo sapevo. In quel periodo avevo ricevuto offerte dal Bayern, dal Tottenham, dal Newcastle e dalla Fiorentina e le avevo rifiutate tutte. Avevo scommesso sulla Juventus”.
La Juve rappresenta quindi la priorità assoluta per il giocatore, ma il Borussia Monchengladbach pretende otto miliardi di lire per cedere il capocannoniere della Bundesliga. A Torino vogliono il giocatore, ma non sono disposti a spingersi oltre i sei miliardi. Ne viene fuori un lungo tira e molla al termine del quale ad arrendersi è proprio la Juve che alla fine decide di rafforzare il suo attacco con il solo Amoruso.
“Il Borussia non ha mollato e la Juventus non ha voluto pagare la cifra richiesta. Si era anche pensato ad una causa legale, ma sarebbe durata un’eternità. Di fatto nessuno sapeva se quella clausola fosse valida o meno”.
Con la Juventus fuori dai giochi, sull’attaccante svedese si fionda quindi la Roma che, trovandosi la strada quasi spianata, accontenta il Gladbach, offrendo tra l’altro una cifra molto simile a quella dei bianconeri, e si assicura la sua firma.
Il club giallorosso riesce quindi a mettere a disposizione di Carlos Bianchi una delle punte più desiderate d’Europa e a Dahlin, che sarà presentato insieme a Trotta, viene riservata un’accoglienza da superstar.
L’ultimo tassello, quello necessario per il salto di qualità, ora c’è e in Italia tutti parlano di un colpo straordinario. A 27 anni, l’attaccante svedese è nel pieno della sua maturità e pronto a dare il suo contributo ma, come sempre accade nel calcio, a dare il giudizio insindacabile sulla bontà o meno di un’operazione è il campo.
Dahlin nella capitale si trova chiuso da una concorrenza nutritissima e Bianchi semplicemente non lo vede. Fa il suo esordio in giallorosso giocando gli ultimi quindici minuti di una sfida di Coppa Italia persa clamorosamente contro il Cesena, una squadra di Serie B, poi in campionato va in panchina alla prima giornata, gioca successivamente mezz’ora nella vittoria contro il Vicenza, altri 20’ nella sconfitta contro la Sampdoria ed un solo minuto nel pareggio contro la Reggiana. Al quarto turno di campionato la sua esperienza in Serie A è da considerarsi già conclusa.
Deluso dal mancato approdo alla Juventus, ma anche dal fatto di non essere titolare, Dahlin, nelle poche occasioni avute a disposizione, ha mandato in campo la controfigura di se stesso. Errori grossolani, scarsa lucidità e poco adattamento alle idee di un allenatore che gli preferisce sempre altri compagni di reparto, sono gli ingredienti che porranno fine ad un’avventura durata appena tre partite di campionato senza goal.
“La Roma riuscì ad accontentare il Gladbach, ma c’era un problema: loro avevano già quattro attaccanti in rosa. Fonseca sembrava che dovesse andare via, ma guadagnava troppo, Delvecchio era in prestito dall’Inter e si diceva che doveva partire, ma venne addirittura riscattato. Alla fine quindi eravamo in cinque per due maglie e la concorrenza era troppo grande. Solo tre mesi prima avevo già pronto un contratto con la Juve, dove sarei andato a fare il titolare”.
Dahlin lascerà la Roma a gennaio, ironia della sorte come quel Trotta con il quale era stato presentato, per tornare in prestito al Borussia Monchengladbach. Tornando a respirare l’’aria di casa’ e sentendo nuovamente la fiducia dell’ambiente, riprenderà a segnare con costanza, tanto che al termine della stagione saranno ben dieci i goal in Bundesliga in diciannove partite. Il tutto mentre la deludente avventura di Bianchi in giallorosso è già clamorosamente giunta al capolinea.
Tornerà in giallorosso solo per trovare una nuova sistemazione. In Germania gli estimatori sono tanti, ma deciderà di ripartire dall’Inghilterra.
“Sono stato al Gladbach per cinque anni, per me erano abbastanza. Volevo provare un qualcosa di diverso e scelsi il Blackburn che all’epoca era una delle big d’Inghilterra. Partii anche bene, ma poi feci male alla schiena e la cosa condizionò il resto della mia carriera”.
L’esperienza inglese, condizionata da quell’infortunio patito in allenamento, sarà breve ed avara di soddisfazioni. Dahlin proverà a ripartire dalla Germania e dall’Amburgo, ma ancora frenato dai problemi fisici appenderà gli scarpini al chiodo nel 1999 ad appena 31 primavere.
E’ stato considerato per anni un attaccante fortissimo, ma incredibilmente tanto in Italia, quanto in Inghilterra, viene dai più ricordato come una meteora, o peggio ancora viene inserito nella categoria dei ‘bidoni’.
Della carriera di Dahlin resteranno per sempre però i goal Gladbach (68 in 147 partite complessive), quelli con la Svezia (29 in 60 presenze), oltre che una domanda: come sarebbero andate le cose se fosse approdato alla Juventus? La risposta ovviamente non l’avremo mai.




