
Tra le ricerche di Google alla voce “Mario Paglialunga”, al settimo posto, per ordine di importanza, ne spunta una curiosa: “Che cos’è Mario Paglialunga”, probabilmente frutto di una traduzione maldestra o approssimativa di chissà quale algoritmo. Quel che in molti non sanno, però, è che quelle messe in serie da un semplice motore di ricerca sono state le esatte parole, in ordine preciso, esclamate e anche solo “pensate” per due stagioni dai tifosi del Catania, dopo il suo arrivo in Italia.
La sua storia, comunque, rientra nei canoni della pura normalità calcistica: argentino dai piedi buoni, nato difensore e spostato in mediana. Insomma, uno stopper. Per comprendere meglio perché il Catania, allora “degli argentini”, abbia deciso di puntare forte su di lui, bisogna fare un piccolo passo indietro, rimanendo comunque in Sicilia e all’ombra dell’Etna.
Fino alla stagione precedente a quella che consacrerà la formazione rossazzurra a “piccolo Barcellona”, con Vincenzo Montella in panchina, il centrocampo etneo era così composto, al meglio delle possibilità: Ledesma-Carboni, al massimo Lodi-Carboni, nel 4-2-3-1 di Diego Pablo Simeone. La più semplice delle interpretazioni rende comprensibile l’ingaggio di Paglialunga: erede perfetto di Ezequiel “Kely” Carboni, passato in estate al Banfield, in un certo senso è stato sin da subito la soluzione in perfetta continuità in lingua argentina, persino fisicamente.
Centrocampista intelligentissimo, Carboni non eccelleva certo in stile: arroccato nel suo guscio, macchinoso a tal punto da essere costretto ad abbassarsi in una corsa intrisa di sofferenza e fatica, riusciva comunque a sopperire alla scarsa velocità grazie a tempi d’intervento fuori dalla norma. Insomma: come fosse possibile non è ancora stato spiegato dalla fisica, ma ci riusciva, e pure bene. Paglialunga, dal fisico leggermente più slanciato e smilzo, di Carboni sembrava comunque la fotocopia, seppur con le dovute differenze.
Il mento pronunciato, comunque, aiuta a riconoscerlo da lontano: l’atteggiamento ombroso fa il resto. In certe fasi della corsa in viso sembra somigliare parecchio a Pablo Alvarez, suo compagno di squadra, se non fosse per i diversi centimetri d’altezza che ne segnano la differenza. Estaticamente ha poco di fluido: abbassa la testa, ha poco slancio. Di fatto, però, di tutto quel che abbiamo appena scritto i tifosi del Catania prendono consapevolezza solo in allenamento e in pochissime apparizioni: perché per almeno tre mesi Paglialunga viene schierato solo in Coppa Italia, in una sfortunata sconfitta in casa contro il Novara, e con i ragazzi della Primavera.
GettyIl bilancio della sua prima stagione è sconfortante: una sola presenza in gara ufficiale, nessuna in Serie A. Un oggetto misterioso: ma con una mediana composta da Almiron, Lodi e Izco (o Ricchiuti) e con un rendimento in linea con le inaspettate ambizioni europee, in aggiunta a un calcio veloce e che non si presta tanto alle doti difensive di Paglialunga, ad aspettarsi un rendimento diverso si rischiava solo di apparir fuori luogo, nulla più. A questo si aggiunge uno stato fisico non eccezionale: eredità scomoda di un infortunio che gli complicò la vita nell’ultima parte della sua esperienza al Rosario Central.
“La lesione è ormai guarita e spero di dimostrare presto il mio valore. Arrivo qui con grande entusiasmo. Ricoprirò il ruolo che era di Ezequiel Carboni. Giochiamo nella stessa posizione anche se lui in fase d'interdizione è più bravo di me. Credo di avere qualità tecniche importanti”, affermò in conferenza stampa al momento della sua presentazione.
Deve aspettare 16 mesi prima di far passare il suo nome come l’ennesimo della lunghissima storia della Serie A: il Catania di Rolando Maran è una macchina talmente perfetta da riuscire a non scomporsi neanche di fronte all’inserimento di uno o più giocatori diversi. In verità, comunque, l’esordio di Paglialunga in massima serie è piuttosto relativo e anonimo: 18 minuti in casa contro il Milan alla fine del novembre del 2012, sul risultato già compromesso di 1-2 e in 10 contro 11. La sua prima nel campionato è un 1-3 tra mille polemiche.
Nella gara successiva gioca appena 17 minuti contro il Cittadella in Coppa, poi uno solo al Franchi di Siena: quindi, gli eventi, come spesso avviene, girano a favore del mediano di Rosario. È una domenica di metà dicembre: il Catania, ottavo, ospita una Sampdoria che nei giorni successivi avrebbe affidato la panchina a Delio Rossi, esonerando Ciro Ferrara. Paglialunga siede regolarmente in panchina.
Con Almiron e Gomez assenti, Maran sposta Lucas Castro nel tridente, schierando insieme a Izco e Lodi Salifu, giovane talento in prestito dalla Fiorentina. Al quarto d’ora il ghanese si fa male: l’allenatore rossazzurro si gira verso la panchina. Le scelte, logiche, che in fondo si aspettano tutti i tifosi presenti al Massimino sono essenzialmente due: Ricchiuti, con Lodi arretrato in cabina di regia, o Keko in avanti, con Castro arretrato a centrocampo. Nessuno, ma proprio nessuno pensò a Paglialunga: forse neanche lui.
Eppure, come per uno strano presentimento, il centrocampista argentino fu proprio la scelta preferita di Rolando Maran. Della serie: “Me la sento”, sì, insomma. L’impatto al match non è meraviglioso: pochi tocchi, non certo un giocatore vistoso. All’intervallo il Catania è sotto per il rigore procurato da Mauro Icardi e realizzato da Enzo Maresca.
È magro, Mario: o meglio, “Super Mario”, come lo chiamarono in patria. Magro a tal punto da far sembrare la maglia che indossa, rigorosamente a maniche lunghe (nonostante una giornata tiepida), almeno una taglia più grande del necessario. Al 55’ c’è una palla rimbalzata da Bergessio al limite dell’area, dalle parti di Paglialunga. La sfera rimbalza, lui non si coordina bene: apparentemente, almeno. Perché per prenderla bene servirebbe farla scendere un altro po’, attesa resa impossibile dall’incombente scivolata di un avversario. Niente: si fa quel che si può: quasi saltella per tirarla al volo, ma il tiro che ne esce è praticamente perfetto.
GettyUna conclusione precisa, ma allo stesso tempo sporca: tesa, ma al limite del concetto di verticalità, che batte Romero sbatte sul palo e pareggia i conti. È appena scoccato il suo centoventesimo minuto in Serie A e ha segnato il suo primo goal. Memorabile, tra lo stupore generale.
La prima reazione, istantanea, è un tiepido “Goal!” esclamato dalle tribune del Massimino, a dir poco sorpreso da quella visione: segue un più caloroso e acuto “Paglialunga! Proprio Paglialunga!”, volto a consacrare l’idea che in quella stagione Maran avrebbe potuto far giocare chiunque, trasformandolo in oro.
Fu anche una vittoria importante, quella, per i colori rossazzurri: quella della consapevolezza e delle potenzialità. Simbolicamente, in pratica, il primo e ultimo accenno della presenza di Paglialunga in terra etnea. Giocherà mezz’ora contro la Roma, poi 70 minuti a Genova: infine, appena 6 giri d’orologio contro la Fiorentina, prima di lasciare l’Italia. Andrà in Spagna per vestire le maglie di Real Saragozza e Ponferradina, prima di tornare in Argentina.
Della sua esperienza a Catania rimane poco: l’abbraccio dei compagni dopo la rete alla Sampdoria, l’attesa e i dubbi. Tanti, sull’eredità di “Kely” Carboni, rimasta lì, senza un padrone. Probabilmente non è stato compreso abbastanza: ha la media di un goal in 200 minuti in massima serie, con appena 6 gare nel curriculum. “Il mio obiettivo è quello di affermarmi in Serie A”: ahi lui, non ci è riuscito. Alla domanda principale, "Che cos'è Mario Paglialunga", però, possiamo dare una risposta ancor prima di Google: il simbolo di una squadra che in quel periodo storico poteva tutto. Persino far entrare un giocatore in estrema difficoltà e portarlo in gloria, contro ogni pronostico.




