
“Mi sono ricordato, quando sembrava che la mia carriera stesse per finire, di quel patto che avevo fatto con Dio: gli avevo chiesto di diventare un calciatore famoso, in cambio lo avrei onorato per sempre. Improvvisamente tutto è cambiato: la mia carriera ha ripreso vigore”. Quando il 18 maggio del 2014 il Catania gioca la sua ultima partita in Serie A contro l’Atalanta, Nicola Legrottaglie è in panchina, un mese dopo aver salutato ufficialmente la massima serie.
Quella contro la Sampdoria, il 19 aprile precedente, passerà alla storia come la sua ultima partita tra i grandi: tra i “famosi”. Quel gruppo di persone mistificate e idealizzate al quale ha chiesto esplicitamente di far parte, per intercessione divina. È stato accontentato, ricevendo, in cambio dell’onore tradotto in religione, una carriera culminata con uno Scudetto. Ma ci arriveremo.
Torino coperta dalle nuvole sa essere cinica, a volte. Difficile farlo comprendere a uno che ambisce alle sfere più alte, dal punto di vista celeste, specchiandosi nel cielo sgombro da nuvole. Difficilmente, però, troverete un uomo che incarna alla perfezione tutte le caratteristiche fisiche tipiche dei primi anni 2000 come Legrottaglie al momento del suo trasferimento alla Juventus, dal Chievo Verona: caschetto biondo platino, occhiali “da ciclista”, pizzetto pronunciato. Catenina al collo. Arriva in bianconero dopo aver conquistato la Nazionale: sì, con la formazione clivense. Ha 27 anni e lo vogliono tutti: a ragion veduta, viste le prestazioni.
Del suo passaggio alla Juve, però, colpisce innanzitutto la presentazione: che, e lo diciamo prima di approfondire il discorso, non ha nulla a che vedere con quella di Antonio Cassano al Real Madrid. Quest’ultima ragionata, studiata: male, ma tant’è. Uno dei sollazzi preferiti dalle numerose pagine Facebook a sfondo goliardico è quello di prendere di mira un giocatore per un episodio stravagante: quello relativo al primo giorno di Legrottaglie a Torino, presentato in infradito e pantaloni tricolore (giallo, rosso, bianco), in effetti, lo è. Parecchi anni dopo, però, e giustamente, per placare una volta per tutte le polemiche sull’accaduto è ricorso a un post pubblico in cui ha spiegato le dinamiche di quella giornata.
“Quella mattina ero in spiaggia, in Puglia, convinto che sarei andato alla Roma, quando mi chiamò il mio procuratore: "Nicola, prendi il primo aereo per Torino, devi venire a parlare con la Juve". A PARLARE. Sapevo solo questo. Voi come andate al mare? Io ero così, come mi vedete in foto e così raggiunsi l'aeroporto”, ha spiegato.“Ho imparato la lezione. Da allora, infatti, quando vado in spiaggia indosso sempre giacca e cravatta”.Nicola: non ti curar di loro, ma guarda e passa.
In campo di Legrottaglie si perdono presto le tracce: la Juventus lo manda in prestito al Bologna, quindi al Siena. È in questo periodo che incontra Tomàs Guzmàn, attaccante paraguaiano, anche lui di proprietà della Juventus, ma fino a gennaio 2006 in prestito al Crotone, in Serie B. Viene acquistato per fare la riserva di Enrico Chiesa: diventa “titolare” nella vita dello stesso Legrottaglie.
Guzmàn non è solo un giocatore offensivo particolarmente tecnico, ma anche e soprattutto un “Atleta di Cristo”, il movimento cristiano evangelico di cui fanno parte, tra gli altri, Kakà, Radamel Falcao e David Luiz.
“Era attratto da discoteche, sempre circondato da ragazze, da cose futili”, ha raccontato la sorella ai microfoni di LA7, diversi anni fa. “Facevo delle scelte a volte rischiose. Trattare magari il mio corpo con molta superficialità rispetto a come lo tratto oggi, avrebbe potuto portarmi a delle conseguenze. Era un comportamento superficiale”, ha proseguito Legrottaglie. Tutto questo, prima di incontrare Guzmàn: uno squarcio tra le nubi nel percorso da Siena a Torino. E Nicola rinasce.
La vita lascia poco spazio al caso: per questo motivo non è poi così difficile trovare una spiegazione all’esatta coincidenza tra la rinascita umana e sportiva di Legrottaglie e quella strettamente calcistica della Juventus, dalla Serie B. È uno dei protagonisti della formazione di Didier Deschamps, pur non da titolare, conquistando quel posto che aveva fatto suo pochi anni prima, senza mai viverlo completamente. È un uomo nuovo, un calciatore nuovo: in difesa, invece, riprende le buone prestazioni dei tempi del Chievo. Diventa anche un punto fermo della retroguardia bianconera: la Juve gli rinnova il contratto. Ritrova persino la Nazionale, disputando la Confederations Cup del 2009.
“Non c’è stato un momento particolare o un evento: c’è stata una profonda riflessione nel tempo. Una scelta quotidiana che mi ha fatto sperimentare che Dio è vivente. Togliermi la maglia? L’ho fatto perché ho voluto raccontare la mia esperienza, condividendo con gli altri ciò che ho vissuto”, ha raccontato nello scorso giugno a “Protestantesimo”, su Rai 2, facendo riferimento a un episodio di cui tutti hanno memoria visiva, anche alla lontana.
GettyNel febbraio del 2010 la Juventus è ospite del Livorno, al Picchi: al 42’ pareggia il momentaneo vantaggio di Antonio Filippini. Esulta alzando la maglia: “Gesù è la verità”, ha scritto sulla canotta, nello stadio che ha visto, parecchi anni prima, Cristiano Lucarelli esporre la figura di Che Guevara proprio dopo un goal. Scontro ironicamente iconico.
In realtà, di messaggi Legrottaglie in campo, e appena fuori, ne ha lanciati parecchi nel corso della sua carriera: terminata l’esperienza da calciatore, dopo 3 stagioni che gli permettono di entrare nella storia del Catania (con 79 presenze e goal come quello al Palermo al Barbera), e dopo una breve esperienza da allenatore delle giovanili del Bari, siede sulla panchina dell’Akragas, la prima tra i professionisti, nel 2015.
A settembre il campionato di Lega Pro non è ancora iniziato, slittato per gli strascichi dello scandalo sportivo de “I Treni del Goal”: lo stadio “Esseneto” di Agrigento non è ancora pronto. O meglio: è a norma, ma non è un bel vedere. Legrottaglie si arma di secchi di vernice e pennelli, chiama a raccolta la sua squadra (composta, tra gli altri, da Ciro Capuano e Sergio Almiron, suoi ex compagni al Catania) e i tifosi e dipinge le tribune. Predicatore in campo e fuori.
“C’è qualcosa di più nell’essere umano, che non è solo l’aspetto materiale, che è anche bello, ma c’è l’aspetto spirituale”.
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Di tutti gli episodi che hanno caratterizzato la vita di Nicola Legrottaglie, quello accaduto in un Milan-Lazio dell’1 febbraio del 2011, sua prima e unica partita in rossonero, è il più profondo. È arrivato da un solo giorno a Milano, nell’intervallo Massimiliano Allegri lo manda in campo al posto di Daniele Bonera, infortunato. All’82’ interviene in anticipo, di testa, su Libor Kozak, che lo colpisce in piena fronte col ginocchio. Rimane immobile per 5 minuti, a terra, con una chiazza di sangue in testa e gli occhi sbarrati: quindi lo trasportano fuori in barella, con tanto di collare.
“In quei cinque minuti ho rivisto il film della mia vita. Ho avuto paura di morire”, ha spiegato in seguito. Prima e unica presenza in rossonero: non giocherà più al Milan, ma a maggio alzerà con i compagni lo Scudetto. Il punto più alto: la realizzazione massima della richiesta rivolta al divino, che si è trasformata in realtà. In cambio dell’onore e della retta via, sudata e ritrovata: dell’umiltà che ha squarciato le nubi e che ha fatto tornare il sereno, nella sua vita e nella sua carriera.

