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'Le God' Le Tissier: l'icona e culto del Southampton

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Quando un Dio – anzi, in questo caso specifico un Le God – compie gli anni, che si fa? Nel senso: si fanno gli auguri su WhatsApp? Si compra una torta dalle candeline colorate? Magari si organizza una festa a sorpresa? Forse niente di tutto questo, perché a celebrare una divinità ci penseranno sempre i posteri, quelli che verranno dopo, ricordando le gesta, narrando il carisma e tutti i miracoli in fila.

A Matthew Le Tissier ne è venuto uno, sopra gli altri, di miracolo: prendersi una cittadina inglese di duecentocinquantamila abitanti, nota (in principio) per lo più perché da quel porto fumoso del sud d’Inghilterra era salpato il Titanic, ma in quel caso si sa come andò a finire. Mentre la carriera di Le Tissier a picco non c’è mai andata, anzi: è decollata proprio lì, coccolata e nutrita dai colori biancorossi dell’Hempshire, dove i The Saints (ironico che la squadra del Dio fosse popolata da Santi, no?) hanno cresciuto sin dalle giovanili il suo talento.

Un talento diverso dai tanti che si vedono, e si sono visti, nel calcio. Perché Matthew Le Tissier era strano, sin dalle giunture poco armoniose, i passi caracollanti, fino a quel corpo che sembrava metà di una gru, metà di cavallo. Insolito per un giocatore dalla classe sopraffina - destro naturale ma pure con il sinistro sapeva fare male - avere in dote una struttura così complessa e, forse, brutta da vedere. Un po’ come Rivaldo, ma per altri motivi, che a guardarlo non avresti mai pensato dove avrebbe condotto i tuoi occhi: in Paradiso.

Matt Le TissierGetty Images

Ed ecco che ritorna la divinità, sempre presente quando si parla di uno dei numeri 7 più atipici della storia di questo sport. Un pochino ala destra – dove ha iniziato a giocare – un po’ mezzapunta e attaccante. Ma anche un po’ centrocampista centrale. Punizioni e rigori il suo santuario; in carriera ha messo a segno ben 47 tiri dal dischetto sui 48 avuti a disposizione, come a dire: anche gli dei, una su cento, sbagliano. Il pallone per lui era fatto di zucchero a velo, ovunque ci fosse il suo piede e metri di campo, la sfera volava come sospesa da un filo e finiva dove il 7 desiderava.

Le Tissier aveva una maniera assurda di calciare: il tronco fermo, le braccia spesso statiche, la gamba che partiva in accelerazione improvvisa come una catapulta. I portieri erano sorpresi dai suoi gesti tecnici perché non potevano prevederli, perché come si fa a bloccare qualcosa che non pensi neanche possa partire? Il suo viso ha sempre raccontato l’Inghilterra: il taglio di capelli improbabile, a scodella – quelle che certe madri impongono ai loro figli per risparmiare sul conto dei barbieri – la dentatura imperfetta, il viso beffardo di chi al bar chiederebbe un’ultima pinta al barista che sta sistemando le sedie sopra i tavoli per lavare in terra. Il ventre raccontava la stessa cosa, perché non era mai, all’apparenza, in vera forma partita. Eppure.

Eppure è diventato un Dio di una città inglese, di una tifoseria che lo porta allo stadio ancora oggi, anche dopo il ritiro, negli striscioni, negli aneddoti, come forma di omaggio a chi è stato capace di legarsi a una sola maglia, di fatto, per tutta la carriera. A pensarla ora, inutile approfondire, farebbe ridere la storia di un fuoriclasse che gioca l’intera sua vita sportiva in una squadra di metà classifica della Premier League. E invece certe storie sono accadute proprio per poterle raccontare a chi ne ha bisogno, sfamare l’istinto d’amore per il calcio di chi lo guarda con gli occhi a cuoricino.

Matthew Le Tissier Southampton 1994-95Getty

Una volta disse che lui amava rendere felici le persone, intrattenerle con il suo gioco, e che preferiva essere un pesce grande in uno stagno piccolo. Come ogni divinità che si rispetti ha marchiato a fuoco il tempio, il The Dell, l’ex stadio del Southampton, prima della sua demolizione. Come? Con l’ultima rete della sua storia, nel 2001, contro l’Arsenal. Tre a due all’incrocio dei pali e la storia prende un ultimo respiro per dedicargli un grido immortale. Le Tissier, alla fine, è stato un calciatore fortissimo amato da poche persone, perché, in proporzione, pochi erano i suoi tifosi. Ma si sa: le storie più belle sono sempre quelle che vengono tramandate da padre in figlio, senza bisogno del frastuono. Arrivano sottili, come un sibilo, che sfiora l’udito appena.

Sarebbe potuto arrivare ovunque, forse. In Nazionale inglese non ha avuto la gloria che ha ottenuto con il suo Southampton, perché in una divinità mica ci possono credere tutti? Ognuno ha la sua idea, il suo credo, la parola si allunga solo a chi ha le mani per afferrarla. Quelle che Le God ha fatto vibrare come una preghiera per quasi vent’anni, colmando la distanza tra il divino e l’umano, fondendosi nel corpo sgraziato e pieno di magia di un calciatore che, per come si è evoluto il calcio, non si ripeterà mai più.

Duecentoventuno gol totali con la maglia del Southampton, primo centrocampista ad essere arrivato a cento reti in Premier League, una statua nel cuore di ogni tifoso dei Saints, che quando si tramanderanno quelle storie di generazione in generazione potranno affermare: Le God esiste. Noi l’abbiamo visto.

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